I CONDOTTIERI:
soldati al servizio dei mercanti
Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" (www.graffiti-online.
com), del mese di giugno 2020, con il titolo “AVVENTURIERI,
COMBATTENTI ASSOLDATI DAI MERCANTI”
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Nel momento in cui le compagnie private (i contractors) assicurano
determinate missioni militari, sembra opportuno ritornare sulla storia dei
condottieri nell’Italia del Quattrocento.
condottieri devono la loro reputazione agli artisti che li hanno propagandati
e magnificati. Senza di essi, questi soldati sarebbero caduti nell’oblio. Dal
1328, a Siena, nel “Palazzo Pubblico”, Simone Martini (1284-1344) dipinge
su affresco l’immagine del condottiere Guidoriccio da Fogliano di Reggio (1290-
1352), originario di Reggio Emilia, “capitano dei Senesi all’assedio di
Montemeassi”. Una delle prime rappresentazioni profane ed allo stesso tempo
politiche dell’arte europea.
Per onorare la sua memoria, la famiglia di Erasmo da Narni detto il
Gattamelata (1370 – 1443 circa) affida a Donato di Niccolò di Betto Bardi
detto Donatello (Firenze, 1386 – Firenze, 13 dicembre 1466) l’incarico di
realizzare nel bronzo, a Padova, una statua del condottiero. Una
rappresentazione che si ricollega all’arte antica e si ispira al monumento equestre
dell’imperatore Marco Aurelio (121-180) sulla piazza del Campidoglio a Roma.
Nella stessa logica, Andrea di Michele di Francesco di Cione detto il
Verrocchio (Firenze, 1436 – Venezia, 1488) riceve il compito di realizzare un
monumento equestre in onore di Bartolomeo Colleoni (1395 circa – 1475), che
viene eretto a Venezia, sul campo di San Zanipolo fra il 1480 ed il 1488.
Vale la pena ricordare anche il “condottiere anonimo”, dipinto nel 1475 da
Antonello da Messina (1429-1479), che si ammira oggi al Louvre o anche le
rappresentazioni affrescate dei condottieri, Filippo Buondelmonti degli Scolari,
meglio noto come Pippo Spano (Tizzano, 1369 – Lipova, 1426) e di Farinata
Manente degli Uberti (1212-1264), opere di Andrea di Bartolo di Bargilla detto
Andrea del Castagno (1421-1457) realizzate per il refettorio della chiesa di S.
Apollonia a Firenze intorno al 1450.
Per contro, i letterati e gli umanisti ci hanno lasciato una visione piuttosto
negativa dei condottieri. Facendo proprie la caratterizzazione affibbiata ai
mercenari che si trova già presso gli Antichi, come Aristotele (-384 / -322) e
Platone (-427 / -347), essi hanno denunciato i rischi assunti dalle città che
hanno affidato la loro difesa a questi professionisti di guerra, uomini senza fede
e senza legge, ricettacolo di ogni tipo di infamia. Argomento ripreso in maniera
più sfumata da Nicolò Machiavelli (1469-1527) nel corso delle sue riflessioni: “I
capitani mercenari o sono eccellenti uomini di guerra oppure no: se lo sono, tu non
puoi fidarti, poiché essi cercheranno di farsi grandi per sé stessi, o rovineranno
te che sei il loro padrone oppure ne distruggeranno altri contro le tue intenzioni;
ma se il capitano è senza talento, egli diventerà in ogni caso la causa della tua
perdita”. (Il Principe, XII).
Conoscere bene i condottieri, valutarne bene la loro importanza risulta un
compito molto difficile per gli storici. Nel corso della storia ce ne sono stati
molti ma pochi di loro hanno avuto l’onore di una memoria mentre la maggior parte
sono rimasti nell’ombra, per carenza di eventi memorabili. Per questo motivo è
stato più facile ricordarli in maniera biografica piuttosto che sotto una
descrizione sintetica d’insieme. Allo storico medievista francese Philippe
Contamine (1932- ) va il merito di aver iniziato delle ricerche di qualità che
hanno migliorato le nostre conoscenze nel settore, ma il vero pioniere in questo
campo è lo storico inglese Michael Mallet (1932-2008), con le sue famose opere:
“Mercenaires and Their Masters”; “Warfare in Renaissance Italy”, del 1974 e
“The Military Organization of a Renaissance State: Venice”, del 1984.
I condottieri sono dei professionisti della guerra che si sono resi indispensabili
per assicurare ed anche accrescere la potenza delle città-stato. Occorre
allacciare la loro attività alla crescita d’importanza delle borghesie mercantili ed
alla tutela politica, che queste finiscono per esercitare sulla maggior parte delle
città del centro e del nord della penisola italiana. In effetti, queste nuove classi
dirigenti, complessivamente, si disinteressano dei obblighi e dei compiti militari.
Molti storici recenti hanno riflettuto a lungo su questi problemi e le loro
conclusioni risultano chiare: lo spirito “pre capitalista” che si sviluppa nell’Italia
medievale favorisce nuove pratiche politiche e militari. Un fatto è certo: i
mercanti non vedono la guerra allo stesso modo dei “prodi cavalieri”. Dopo aver
nuovamente conferito al denaro il suo ruolo preminente, essi hanno ridotto il
tempo mistico ed eroico, rispettivamente dei chierici e dei guerrieri, ad una
semplice effemeride, carica di annotazioni su appuntamenti e scadenze.
Di fatto, i grandi mercanti italiani vedono ormai nella guerra solamente il
prolungamento, in determinati casi inevitabile, della politica. Tutto questo
perché, collegando i loro interessi privati all’interesse globale della città: “Essi
sapevano bene che, in determinati momenti, la guerra diventava uno strumento
necessario per favorire la prosperità della città e lo sviluppo dei loro stessi
affari; in tale modo, essi non esitano a scatenare, al momento opportuno, la
guerra, ma non la fanno più essi stessi in prima persona … La prosperità e
l’intensità di questi affari, ai quali essi sacrificano tutto, forniscono loro, allo
stesso tempo, la scusa ed i mezzi per non portare più le armi: non è forse più
ragionevole e più economico, senza mobilitare i cittadini più efficaci, pagare dei
mercenari che possono condurre la guerra in loro nome, mentre i mercanti, attivi
nei loro affari, continueranno a guadagnare il denaro per le loro paghe ?” (1).
Fino a verso il 1360-1370, l’Italia viene percorsa da bande di mercenari stranieri,
Angioini, Catalani, Inglesi, Tedeschi ed anche Ungheresi, chiamate in Italia, con
gran sollievo di transalpini, su iniziativa dei nostri signorotti locali. La loro
reputazione è detestabile e non senza ragione. Essi sono dei “barbari”, denunciati
sia dal Francesco Petrarca (1304-1374), sia da Dante Alighieri (1265-1321). Fra
i peggiori, i Cavalieri della “Compagnia della Colomba”, un’accozzaglia di Tedeschi
con qualche Italiano, del 1334; la “Compagnia di S. Giorgio” di Lodrisio Visconti
(1280-1364); la “Compagnia Bianca”, formata in maggioranza da Inglesi, di
Alberto Sterz (decapitato nel 1366 dai suoi finanziatori a Perugia e passata poi
sotto il comando di ser Giovanni Acuto-Hackwood, 1320-1394); la sua acerrima
avversaria, la Compagnia del Cappelletto o Compagnia Nera, costituita da Italiani,
Borgognoni e Tedeschi e fondata nel 1362 da Niccolò da Montefeltro (1319-
1367). Essa ebbe come capo il tedesco Hartmann von Wartstein e confluisce
successivamente nella compagnia di San Giorgio; la Compagnia del Fiore formata
da Tedeschi, di Hugo von Melichin o von Melchingen (detto anche Ugo dall’Ala
dal suo blasone); i ribaldi della “Grande Compagnia” di Werner di Corrado von
Urslingen (1308- 1354), meglio noto come Duca Guarnieri, che si era preoccupato
di far incidere sulla sua corazza il seguente avvertimento “Nemico di Dio, nemico
di pietà, nemico di compassione” (passata poi sotto la guida di Corrado
Wirtinger, von Landau, il famoso Conte Lando, morto nel 1363) o anche la nuova
“Grande Compagnia”, formata da Ungheri, di un ex frate, Jean Montreal du Bar
o d’Albarno, meglio conosciuto come Frà Moriale, cavaliere di San Giovanni
(1303-1354), fatto arrestare da Cola di Rienzo a Roma e decapitato dopo essere
stato torturato. Per pura curiosità, va ricordata anche la Compagnia della Stella,
che nasce dall’abbandono dello Sterz della Compagnia Bianca e dal suo sodalizio
con Hanekenen von Baumgarten o Anichino di Bongardo (morto nel 1375), ma
anche la Compagnia nazionale di San Giorgio, guidata da Alberico da Barbiano
(1349-1409), cresciuto alla scuola dell’Acuto.
Personaggi di questa risma finiscono per stancare i loro “datori di lavoro”, che
iniziano a temere i loro “scatti d’umore”. A poco a poco, le bande di mercenari
stranieri si imbastardiscono e si affievoliscono e molti ripassano le Alpi per
ritornare in Francia, in quel momento in piena guerra dei 100 Anni.
In Italia, tutti sono ormai d’accordo per tentare di moralizzare e canalizzare il
mercenariato, indispensabile agli occhi dei potenti e degli oligarchi della penisola.
Si passa, a quel punto, ad “organismi militari permanenti, coerenti e solidi, che
entrano o cercano di entrare sistematicamente al servizio o al soldo di uno o di
un altro stato italiano” (2).
Il periodo d’oro dei condottieri si situa intorno alla metà del 15° secolo, proprio
nel momento in cui si prolunga la lotta fra Milano e Venezia, quest’ultima aiutata,
per un breve periodo, da Firenze, fra il 1425 ed il 1454. Dopo la Pace di Lodi e
fino al 1480, le lotte fra i vari Principati e le città stato diminuiscono di
intensità. Tutto riprende in seguito con una nuova generazione di principi
condottieri, le cui preoccupazioni politiche tendono ad avere il sopravvento sulle
loro occasionali attività guerresche. L’irruzione nella penisola, nel 1494, da parte
dei Francesi di Carlo 8° (1470-1498), determina il declino dei condottieri, il cui
ultimo rappresentante, perlomeno il più conosciuto fra di loro, è Giovanni de’
Medici detto dalle Bande Nere, il padre di Caterina de’ Medici, nato nel 1498
e morto nel 1526.
La base del sistema dei condottieri si basava appunto sulla “condotta”.
Inizialmente, il termine condotta designava un tipo abbastanza vario di
transazioni, ma, col tempo, esso finisce per essere riservato al reclutamento di
un comandante di guerra e dei suoi uomini. Una condotta in regola veniva trattata
sotto un punto di vista strettamente commerciale. Essa si riferisce all’impiego,
da parte di un datore di lavoro, di uno speciale tipo di “imprenditore”, al quale
vengono specificati un certo numero di compiti. Il contratto che ne discende
stabilisce la natura di tali servizi, fissa una durata d’impiego e l’importo della
remunerazione. La condotta viene di norma stabilita per la durata di uno o due
anni ed é, in genere, tacitamente rinnovata.
La parte più delicata della condotta, quella che necessita le stipulazioni più
dettagliate, riguarda l’importo del pagamento (che il condottiere ridistribuisce, a
suo modo, fra gli uomini che lo seguono), la spartizione del bottino ed i riscatti
dei prigionieri. In genere, occorre discutere lungamente e con fermezza sulle
“spese generali”, i rifornimenti, le forniture di armi e di abbigliamento, di
monture dei cavalieri, gli alloggiamenti, ecc.. Mario del Treppo, lo storico
medievista italiano, nato nel 1929, che ha studiato nel dettaglio le compagnie di
ventura, ci fornisce una analisi completa della compagnia di Micheletto degli
Attendoli o Attendolo da Cotignola (1390-1451), che ha imperversato fra il 1425
ed il 1449. La compagnia, che disponeva di una amministrazione permanente molto
accurata, funzionava quasi come una delle nostre moderne società di servizi: la
sua reputazione di serietà gli ha permesso di avere sempre diverse condotte e di
non essere mai stata “disoccupata”, come tante altre.
Questo aspetto viene confermato da Michael Mallet: “Sarebbe un grosso errore
vedere la compagnia di ventura come una banda di mercenari rapaci che vivono ai
margini della società. Una compagnia di questo tipo viveva di norma in
accantonamenti prestabiliti e si radicava, in genere, nella società e nell’economia
locali”.
A questo punto occorre domandarsi chi poteva essere attirato dalla vita
avventurosa e rischiosa del condottiere. La professione esercitava una naturale
attrattiva sulla gente di nobile estrazione, discendenti da grandi famiglie (in
genera cadetti svantaggiati nella trasmissione del patrimonio) o da piccoli
cavalieri o anche piccoli signori ridotti a vivere di beni fondiari insufficienti.
Pertanto si incontrano fra i condottieri personaggi dai nomi illustri come gli
Orsini, i Colonna, i Sanseverino, i Trivulzio, i Medici, ed altri che sono entrati
nella storia esclusivamente per le loro imprese. Al contrario, il padre di
Francesco Bussone, conte di Carmagnola (1385-1432), un piemontese al servizio
dei Visconti, era un guardiano di porci ed egli stesso ha iniziato la sua carriera
come valletto d’arme. In ogni caso, questi condottieri di bassa estrazione
risultano poco numerosi.
Fra questi condottieri, due figure antinomiche attirano la nostra attenzione,
Federico da Montefeltro, Duca d’Urbino (1422-1482) e Sigismondo Pandolfo
Malatesta, Signore di Rimini (1417-1468). Il primo, nato a Gubbio, discende da
una famiglia della piccola nobiltà di Urbino, nelle Marche. Formato alla corte dei
Gonzaga di Mantova, egli soggiorna a Venezia e decide di abbracciare la
professione delle armi, che egli conduce per proprio conto. Il mestiere l’ha
appreso, bene e rapidamente, al servizio di un “vecchio” condottiero, anche se ha
perduto un occhio in occasione di una giostra. Ma come lo afferma il papa Pio 2°
(Enea Silvio Piccolomini 1405-1464), anche “con un solo occhio riesce a vedere
tutto”. Federico serve tre papi, due re di Napoli, due duchi di Milano ed anche la
città di Firenze ed ovunque con soddisfazione dei datori di lavoro. L’uomo appare
sempre inattaccabile, di gran tatto e diplomatico quando necessario ed, in
definitiva, viene considerato un “condottiere virtuoso”. Il duca investe i suoi
enormi guadagni nel suo palazzo d’Urbino, dove invita letterati, scienziati, pittori
e scultori, fra i quali Piero della Francesca (1412 circa – 1492).
In diverse riprese Federico affronta il suo vicino Malatesta, che, a sua volta, ha
servito numerosi signori e specialmente la Serenissima ed il Papato, con alterne
fortune, tanto che per rimettere in sesto le sue finanze sarà persino costretto a
recarsi in Morea per combattere i Turchi.
Il Malatesta è anch’egli un condottiere mecenate. Egli fa lavorare Piero della
Francesca e Leon Battista Alberti (1404-1472), che gli costruirà il celebre
Tempio Malatestiano. Ma nel momento in cui il personaggio muore a Rimini, la sua
reputazione risulta macchiata da eccessi di tutti i tipi. Il giudizio espresso dal
papa Pio 2° Piccolomini è senza appello: “Egli disprezzava la religione, non credeva
alla vita eterna ed era convinto che l’anima morisse con il corpo”.
In definitiva, i condottieri sono una caratteristica del loro tempo. Stricto sensu,
essi non hanno avuto una posterità diretta, anche se, nel corso dei secoli, diversi
personaggi hanno incarnato, ciascuno a suo modo, le loro maniere di vita ed i loro
valori. Basti pensare alle figure del conestabile Carlo 3° di Borbone
Montpensier (1490-1527), al generale Albrecht von Wallestein (1583-1634), al
maresciallo Maurizio di Sassonia (1696-1750) o ancora al vate Gabriele
d’Annunzio (1863-1938), in occasione della vicenda fiumana del 1919.
In fin dei conti, prendendo in considerazione il solo aspetto commerciale, oggi,
per ritrovare le modalità di impiego dei condottieri del Quattrocento, ci si può
riferire alle società militari private (SMP), che operano per conto degli Stati.
Fra queste, basti ricordare la società americana Blackwater (oggi Academi), che
ha imperversato in Irak ed in Afghanistan, con procedure e risultati molto
discutibili e con una grande e sostanziale differenza rispetto al passato: non
risulta, in effetti, che i profitti realizzati dalle odierne SMP siano stati
impiegati, questa volta ed a differenza dal passato, per finanziare opere d’arte,
monumenti, oppure trattati di … filosofia.
NOTE
(1) Renouard Yves, “Les Hommes d’affaires italiens au Moyen Age”, Tallandier,
2009;
(2) Contamine Philippe, “La Guerre au Moyen Age”, PUF, 2003