EUROPA alla CONQUISTA del MONDO
(Pubblicato sul n. 282, dicembre 2020, della Rivista Informatica “Storia in
Network” - www.storiain.net con il titolo “L’EUROPA ALLA CONQUISTA DEL
MONDO”)
Nel 19° secolo, le nazione europee si lanciano alla conquista dell’Asia, e
dell’Africa. Nel giro di qualche decennio, tutta una parte del mondo passa
sotto il dominio di un’altra, e ciò in nome della libertà e del libero scambio !
La colonizzazione è un fenomeno vecchio quanto la storia dell’uomo, ma il
grande movimento di colonizzazione lanciato dall’Europa nel 19° secolo presenta
degli aspetti nuovi. In effetti il termine “colonia”, assume nella storia delle realtà
molto diverse. Esso evoca inizialmente uno spostamento di popolazione, di pionieri
che partono per fondare, in genere sulle coste di un’altra regione, delle città e
delle agglomerazioni che conservano dei legami con la metropoli d’origine.
A partire dal 16° secolo, il termine “colonizzazione” (1) ha designato la prima
ondata dei grandi imperi coloniali occidentali, spagnoli e portoghesi,
essenzialmente in America, ma anche in India ed in Africa sotto forma di empori
commerciali. Questi imperi sono caratterizzati da una economia fondata, come
nell’Antichità, da una parte sulla schiavitù e sulla tratta degli schiavi e dall’altra
sullo sfruttamento delle miniere e delle piantagioni agricole, secondo la logica del
mercantilismo (2). Per quanto concerne il termine “impero”, esso ha a lungo
designato lo stato, questo è ancora il caso all’inizio del 19° secolo, dell’Impero
napoleonico. E’ alla fine del secolo che appare un termine nuovo per designare
questa epoca: “l’imperialismo”, vale a dire il sistema economico e politico che
accompagna l’espansione oltremare delle potenze industriali occidentali nei secoli
19° e 20°.
Nel 16° - 18° secolo le imprese coloniali sono delle conquiste lontane, che si
accompagnano spesso all’evangelizzazione, con metodi a volte brutali, ma senza
pretese di assimilazione. Non ci sono differenze considerevoli fra colonizzatori e
colonizzati sul piano delle capacità tecnologiche. Per l’imperialismo (3) del 19°
secolo, per contro, ci si trova in una situazione completamente nuova: una enorme
disparità in termini tecnologici, economici, militari e di potenza. Un immenso
fossato separa la civiltà industriale, dalle civiltà che sono rimaste rurali ed
artigianali.
Il paradosso sta nel fatto che l’Europa ha rilanciato una avventura imperiale in
un contesto che rifiutava tale genere di progetti. L’Europa liberale della prima
metà del 19° secolo ritiene che il voler regnare direttamente su dei territori
lontani, risulta obsoleto e costoso. L’indipendenza dell’America latina e quella
degli USA, sono passate anche attraverso questi ragionamenti europei. Quello
che occorre incoraggiare è l’espansione economica, marittima e commerciale. Il
modello liberale sostiene l’idea che il progresso dell’industria è fondato sugli
scambi con il resto del mondo, il più libero possibile, e non sul protezionismo, il
sistema della esclusività coloniale, che predominava fino al quel momento.
Esiste anche un argomento morale contro la colonizzazione: l’epoca della schiavitù
e della tratta degli schiavi è terminata. La tratta viene bandita in linea di
principio dal Congresso di Vienna, del 1815, e l’Inghilterra si assume il compito di
gendarme dei mari per fare rispettare questa decisione. La schiavitù viene
abolita progressivamente, in Inghilterra nel 1834, in Francia, definitivamente nel
1848; negli USA nel 1865, a seguito della Guerra di Secessione. Orbene, saranno
proprio queste stesse società, nelle quali domina il discorso liberale, che si
lanceranno, nella seconda metà del 19° secolo, nella costruzione dei grandi imperi
coloniali. Esiste in definitiva una contraddizione interna in questo discorso
liberale, che sul piano economico propugna l’apertura dei mercati e che, sul piano
morale, sostiene la fine della schiavitù. Si vedrà in tal modo, in nome della
libertà, del progresso, dei diritti dell’uomo, giustificare, in virtù degli stessi
valori, interventi politico militari in quelle che diventeranno delle colonie.
Occorre accostare anche questo movimento alle correnti scientifiche, all’idea
che il mondo deve essere interamente conosciuto nei suoi molteplici aspetti: la
flora, la fauna, le popolazioni, ecc.
Le motivazioni economiche risultano ugualmente decisive, specialmente per
quello che concerne gli sbocchi commerciali per l’industria tessile e metallurgica,
ma anche la preoccupazione di controllare le materie prime tratte dall’agricoltura
tropicale o dalle miniere. L’India rappresenta molto rapidamente un elemento
fondamentale nell’equilibrio politico-economico britannico. Questo paese fornisce
il cotone necessario all’industria tessile inglese, le cui esportazioni hanno
rovinato la sua stessa produzione. Parallelamente, in Estremo Oriente, le potenze
europee forzano le porte della Cina. Gli Olandesi, che hanno recuperato, dopo
l’epoca napoleonica, le loro colonie dell’Insulindia (Giava, Sumatra, Borneo, ecc),
hanno sviluppato a Giava, all’inizio del 19° secolo, un sistema di culture
obbligatorie estremamente efficaci e che saranno di esempio per altri imperi
coloniali. Quanto al continente africano, gli Europei vi conducono dal Maghreb al
Capo di Buona Speranza, una colonizzazione sia di conquista e di popolamento, a
dispetto di qualsiasi teoria liberale.
Resta comunque il fatto che la nuova colonizzazione prende il via in nome della
libertà e del libero scambio, ma il libero scambio non avrà vita lunga. Ciò è dovuto
al fatto che l’Europa subisce una crisi economica a partire dalla metà degli anni
1870, che determina un ritorno al protezionismo ed alla ricerca di mercati
protetti. Questa congiuntura si coniuga con una nuova situazione in Europa,
segnata dalla crescita dei nazionalismi (4), dopo l’unificazione tedesca e la guerra
franco prussiana del 1870. Tutto il mondo, allora entra in risonanza per effetto
delle rivalità interne europee. E’ in questa nuova situazione che viene a verificarsi
la suddivisione dell’Africa alla fine degli anni 1880. Questo sfocerà su una accesa
rivalità fra le potenze, bene illustrato dall’episodio di Fashoda (5). Esso
consistette in una crisi diplomatica di estrema gravità fra Inghilterra e Francia
nel 1898, di cui furono protagoniste la missione francese di Jean Baptiste
Marchand e la spedizione inglese di Lord Horacio Herbert Kitchener, entrambe
tendenti a stabilire una base strategica nel quadro della conquista coloniale
dell’Africa.
La conquista del mondo da parte degli Europei si sviluppa in buona fede. Si
tratta dell’alleanza e della combinazione fra la filantropia e la conquista, fra i
diritti dell’uomo e le rivalità di potenza, fra lo spirito missionario e gli interessi
del commercio.
Ma questa buona fede avrà delle conseguenze anche sulle teorie delle
disuguaglianze dei popoli. In effetti, questo aspetto rappresenta un momento di
svolta. In precedenza, i teorici dell’emancipazione degli schiavi, sia che si tratti
di filosofi formati alle idee dell’illuminismo, sia che si tratti di metodisti, che
hanno contribuito alla formazione di pastori neri nelle loro missioni della Costa
d’Oro (l’attuale Ghana) a partire dagli anni 1840, erano guidati da un’idea
universale dell’uomo.
Beninteso, questa concezione universale non scompare dalla scena di fine secolo
19°, ma esse viene contrastata, se non rinnegata, dai discorsi “scientifici” sulla
classificazione delle popolazioni e sulla disuguaglianza delle razze. Queste teorie
non sono nate con la colonizzazione, ma esse si sono sviluppate con essa. Anche se
si evidenzia un obiettivo “civilizzatore”, si ritiene che queste popolazioni sono
arretrate come dei bambini e sono destinate a restarlo a lungo. Questa è una
versione del discorso biologico che si potrebbe qualificare come paternalista;
questa tendenza è sottintesa dall’idea che l’evoluzione dell’Africa e dell’Asia
potrà avvenire grazie all’influenza dei colonizzatori, ma che peraltro avverrà in
tempi lunghi, per i quali non è prevedibile né una durata né è scontato il successo.
E questa è la concezione che sopravvivrà fino agli anni 1950.
In certi casi gli Occidentali hanno veramente cercato di “civilizzare” le colonie.
Esistono, in effetti delle trasformazioni ben conosciute: la fondazione di
ospedali, la costruzione di ferrovie, di porti marittimi, più tardi l’introduzione del
camion, la creazione di nuove città, come Dakar o Nairobi. Sono stato
soprattutto i settori dei trasporti e della salute che hanno avuto un significativo
impulso, ma occorre dire che tali trasformazioni interessavano direttamente i
colonizzatori, perché concernevano il commercio e la loro salute. Le indagini sulle
epidemie, le scoperte che sono state fatte nella lotta contro il paludismo, la
malattia del sonno, ecc, erano in qualche modo anche una maniera di legittimare la
colonizzazione.
Quello che si può effettivamente rilevare è anche gli sconvolgimenti connessi
all’introduzione di nuove attività economiche. Nell’Africa tropicale, l’agricoltura
di sopravvivenza degli indigeni viene emarginata da piantagioni di caffè, di thé, di
cotone, di palma da olio. In Asia, le piantagioni di thé dell’India o di hevea
dell’Indocina mettono un evidenza lo stesso fenomeno. Vengono aperte delle
miniere, specialmente nell’Africa del Sud (diamanti ed oro), in Rhodesia (la
cintura del rame) e nel Congo (con l’Unione Mineraria dell’Alto Katanga).
Per tutto questo occorre manodopera. Gli Europei inizieranno a reclutarla
massicciamente, secondo uno schema di lavori forzati. Tutte queste persone
vengono strappate al lavoro dei campi, allontanate dal ritmo delle stagioni e dalla
gestione abituale dei villaggi. All’improvviso scompaiono attività artigianali,
specialmente il lavoro dei fabbri, rovinate proprio a causa delle importazioni di
utensili a buon mercato nell’agricoltura (non necessariamente di qualità
superiore).
Quello che è forse più grave è rappresentato dall’operazione culturale, che
consiste nel far comprendere alla gente che il loro lavoro non è di buona qualità e
che è storicamente superato. Secondo i dettami dell’agronomia coloniale essi non
sanno coltivare, anche se i contadini dell’Africa, nel corso dei secoli, hanno
saputo mettere a punto dei sistemi agricoli efficaci ed hanno dimostrato la loro
capacità di adattamento. In realtà, i colonizzatori vi vedono la lentezza di
qualsiasi società rurale, che diventa ben presto “l’apatia” degli Africani. Ne
deriva una specie di colpo nel subcosciente collettivo, che rende tutto quello che
viene dall’esterno preferibile a quello prodotto in Africa.
In ogni caso, una fetta delle società locali viene catturata dal sistema coloniale.
L’Africa si muove. Gli Europei formano le nuove leve - ad un livello modesto -
attraverso le scuole primarie , attraverso le missioni cristiane, si circondano di
ausiliari “indigeni”, ma, allo stesso tempo, diffidano sempre di loro. Alla fine dei
conti, il “buon africano” che si legge nella letteratura coloniale, è colui che resta
nel suo villaggio con il suo capo tradizionale. Gli altri, specialmente quelli che si
evolvono, vengono considerati come sradicati, come gente che mente e
suscitatori di agitazioni.
In qualche modo, la società coloniale diventa una società di segregazione !
Essa si manifesta fisicamente nelle città, anche se occorre fare delle distinzioni.
Dar es Salaam non è Nairobi e Dakar non è Leopoldville. Ogni città ha la sua
storia concernente il suo popolamento e la sua gestione urbana: nelle più antiche,
la rottura coloniale risulta meno brutale, mentre si fa sentire di più in quelle
create più di recente.
Di fatto, le città sono largamente segnate nello spazio dalla segregazione, anche
se non è ufficiale (fatto che spesso avviene anche nelle nostre metropoli). Il
centro è nettamente distinto dai quartieri indigeni, questi ultimi separati da una
“no man’s land”, in nome della sicurezza e dell’igiene. Spesso l’ospedale per gli
indigeni è allocato nella predetta area, nella quale si incontrano i medici ed i
malati. Essa è anche una società marcata profondamente da statuti. Da una parte
ci sono i cittadini (britannici, francesi, ecc.), dall’altro gli “indigeni”, che hanno
uno statuto particolare sul piano giuridico. Giuridicamente, gli indigeni rispondono
ad una giustizia gestita dall’amministrazione coloniale, o nei casi di minore
importanza dai loro capi abitudinari, ma sempre sotto il controllo del
colonizzatore (che a volte non è un fatto negativo). In definitiva, esiste un
adattamento fra lo statuto giuridico, le funzioni economiche e la “razza”. Lo
stato coloniale è dirigista sul piano economico e gerarchico sul piano sociale:
ciascuno deve stare al suo posto stabilito.
Da qui deriva il problema dei meticci. Essi rappresentano una minoranza, ma non
disprezzabile, specie nelle antiche colonie, come nel Senegal o nella Colonia del
Capo (dove rappresentano fino al 10% della popolazione). Essi rappresentano un
problema. In effetti, in relazione al discorso razziale, ci si domanda secondo
quale norma bisogna educarli, come gente bianca o di colore ? Occorre, in alcuni
casi, persino la creazione di istituti speciali per inquadrarli.
Si è a lungo insistito sulle differenze fra l’amministrazione indiretta
all’inglese che si appoggia sulle dirigenze locali e l’amministrazione diretta dei
Francesi, anche se tutti più o meno fanno ricorso all’amministrazione indiretta,
vale a dire attraverso l’utilizzo di intermediari africani, battezzati “capi”.
Tuttavia, nell’indirect rule britannica, c’è forse un maggiore rispetto delle
tradizioni storiche locali. Gli esempi più conosciuti sono quelli della Nigeria o
dell’Uganda, dove antichi sovrani locali si vedono confermati nelle loro funzioni
dirigenti, sotto il controllo coloniale.
Ma, in ogni caso, si assiste a delle manipolazioni: i capi che non piacciono vengono
cambiati e spesso anche l’amministrazione britannica pratica l’intervento diretto
che, sul posto, inquadra gli “intermediari” secondo logiche europee.
E’ pur vero che Francesi e Belgi hanno la tendenza a rimuovere i vecchi poteri e
questo rappresenta la principale differenza. Gli Inglesi rispettano di norma le
grandi entità storiche e, a differenza degli altri, sviluppano spesso meglio
l’insegnamento di colonizzati, instaurando per primi l’insegnamento secondario ed
anche superiore in Uganda.
L’apogeo del sistema coloniale si situa, per alcuni storici, certamente dopo il 1914
e piuttosto verso gli anni 1930. L’esposizione universale del 1931 a Parigi ne
costituirebbe il culmine, che corrisponde anche all’apogeo dell’Impero Britannico.
In tale contesto, la crisi economica del 1929, che coinvolge rapidamente il mondo
intero, arriverà a colpire le colonie fra il 1932-34. Queste diventano, in breve,
meno redditizie ed il crollo dei prezzi di un certo numero di prodotti di
esportazione, coinvolge nella stessa crisi produttori ed operai.
Per la maggioranza, l’apogeo si pone di fatto negli anni 1950, vale a dire alla vigilia
del crollo del sistema, che viene denominato “coloniale tardivo”. E’ l’epoca dei
grandi investimenti: vengono decisi dappertutto dei piani decennali per finanziare
equipaggiamenti. Questi investimenti costituiscono una risposta alle sfide che si
presentano alle potenze coloniali all’indomani della 2^ Guerra Mondiale,
soprattutto dopo l’indipendenza dell’India, nel 1947, nel momento in cui la
contestazione dei sistemi coloniali si amplifica e nel quale l’Ufficio Internazionale
del Lavoro diventa più incisivo nella critica delle condizioni sociali dell’indigeno.
Oggi la maggioranza delle popolazioni delle società delle ex potenze coloniali sono
attraversate da complessi di colpa e risultano alle prese con i problemi morali
connessi con il passato coloniale e con il tentativo di dare una giustificazione alla
storia coloniale, fra pentimenti e ripensamenti. Ma il primo consiglio opportuno
sarebbe quello di mettere in guardia dalle confusioni che possono nascere fra
storia e memoria. Occorre, in ogni caso, evitare l’anacronismo ! I colonialisti
del passato agivano effettivamente, come abbiamo visto, nell’ambivalenza della
loro epoca: da un lato erano imperialisti e dall’altro difensori dei diritti dell’uomo.
Lo storico non deve pertanto temere di identificare i crimini del passato, il
cinismo che accompagnava la tratta degli schiavi, la violenza ed il disprezzo che
hanno marcato, in molti casi, il sistema coloniale. Ma non si tratta comunque di
evocare inutili pentimenti, di esercitare una giustizia retrospettiva ed ancor
meno di colpevolizzare gli Europei, in quanto discendenti dei colonizzatori. Il
mestiere di storico, tanto per parafrasare una formula di Marc Bloch (1886-
1944), “rimanda ogni generazione a fare i conti con il proprio tempo, piuttosto
che con quello dei padri”.
NOTE
(1) L’Europa ha conosciuto due grandi fasi di conquiste coloniali: quella del 15°-
16° secolo, verso l’America ed in una minore misura in Africa ed Asia; quella del
19°-20° secolo verso l’Africa e l’Asia. Il movimento è stato così profondo che la
maggior parte delle frontiere extraeuropee sono state tracciate dagli Europei
(ad esempio più dell’80% in Africa);
(2) Il mercantilismo, dottrina economica elaborata fra la fine del 15° secolo e la
metà del 18° secolo, propugna l’arricchimento delle nazioni per mezzo di un
commercio estero protetto;
(3) Termine che in francese designa in primo luogo il regime napoleonico; nel 19°
secolo il termine inglese “imperialism” designa la politica di espansione coloniale
condotta dall’impero britannico. Il concetto si evolve pertanto per qualificare la
politica di uno stato che mira a porre altri stati sotto la sua dominazione politica,
economica e culturale, per mezzo, in particolare, della colonizzazione. Il termine
qualifica anche l’ideologia che propugna questa espansione e la giustifica;
(4) Il termine può prestarsi ad equivoci. Esso può designare la volontà di far
corrispondere lo stato con la nazione: fatto che viene denominato nel 19° secolo il
“movimento delle nazionalità”. Ma il termine può anche rappresentare i politici
che mirano a rinforzare la “nazionalizzazione” della società, attraverso
l’unificazione linguistica, l’educazione patriottica. Esso qualifica, infine, una
ideologia che incita ad un sussulto nazionale sia attraverso una rivoluzione
conservatrice, sia attraverso una politica estera aggressiva o attraverso la
combinazione delle due cose;
(5) Crisi diplomatica di una estrema gravità fra l’Inghilterra e la Francia nel
1898, a seguito degli scontri di Fashoda nel Sudan fra la missione francese di
Jean Baptiste Marchand (1863-1934) e la spedizione inglese di Lord Horacio
Herbert Kitchener (1850-1916), entrambe tendenti a stabilire una base
strategica nel quadro della conquista coloniale dell’Africa.