SAHEL,in un vicolo cieco
(Pubblicato sul n. 279, settembre 2020, della Rivista Informatica “Storia in
Network” - www.storiain.net)
La Francia, che si è attribuita il riservato dominio in questa zona dell’Africa,
si trova in un vicolo cieco. Per carenza di uomini, di mezzi tecnici, ma anche
per la reale volontà africana di mettere fine a questi conflitti. Le tribù e le
etnie hanno preso il sopravvento sugli Stati e nessuna soluzione sembra
apparire all’orizzonte per poter chiudere un conflitto che dura da più di 30
anni. Il dilemma attuale per la Francia è come risolvere il problema senza
partire e, conseguentemente, senza lasciare ai Jihadisti il controllo di questo
spazio. I governi locali, utilizzando sempre più la retorica dell’odio
antifrancese, potrebbero costringere, col passare del tempo, la Francia a
dare forfait.
Dopo il successo dell’Operazione “Serval” contro i Gruppi jihadisti nel Mali,
la Francia sperava di proseguire, sul lungo termine, la lotta contro i GAT
(Gruppi Armati Terroristi), ma questa volta, facendo entrare nel gioco gli
altri attori internazionali, che aveva lasciato di lato durante le operazioni del
gennaio-marzo 2013. Nel febbraio 2014 viene fondato, per iniziativa della
Mauritania, il “G5 Sahel”, con il Mali, il Burkina Faso, il Niger ed il Ciad, paesi
che condividono gli stessi problemi di sicurezza. Questo raggruppamento viene
immediatamente sostenuto dall’ONU, dall’Unione Europea e dalla Francia, al fine
di ottenere un contesto amministrativo internazionale e legale all’operazione
francese “Barkhane”, lanciata nell’agosto 2014.
L’illusione della vittoria (2013-2014)
Di fronte alla logica transfrontaliera della minaccia dei GAT, il G5 Sahel adotta
una risposta pragmatica e transnazionale, accettando di diluire le sue forze nello
spazio del Sahel. Di fatto, contro il rischio di fuga dei GAT al di là delle
frontiere, il G5 Sahel offre un diritto di inseguimento transfrontaliero; contro
zone rifugio a cavallo di diversi paesi, come, ad esempio, la foresta di Uagadu
(Mauritania-Mali), il G5 Sahel valida gli interventi comuni, battezzati, ben presto,
come operazioni congiunte.
Gli obiettivi sono puramente operativi: impedire qualsiasi possibilità di recupero
ai GAT, evitare la formazione di santuari di guerriglia, limitare le capacità di
rigenerazione jihadista, tagliare i flussi logistici. Tuttavia, l’operazione
“Barkhane” è, teoricamente, appena un appoggio un sostegno agli attori del Sahel,
le cui forze armate hanno il compito di “condurre il combattimento” vero e
proprio.
Ma in uno spazio nove volte più grande della Francia, qualche migliaio di uomini (di
cui poco più di 3 mila Francesi) non risultano sufficienti, ne adeguati a garantire
la fine dei flussi jihadisti. Nonostante ciò, i successi dell’Operazione “Barkhane”
e delle forze speciali sono risultati netti e manifesti. I resoconti delle missioni
indicano che, dal 2014, sono state scoperte numerose basi logistiche, sono stati
neutralizzati un grandissimo numero di pickup ed arrestati molti uomini. Diversi
dirigenti dei GAT sono stati uccisi in combattimento o sono stati arrestati.
Il rischieramento dei GAT (2014-2016)
Eppure i gruppi armati sono comunque riusciti a de localizzarsi ed a rischierarsi.
Numerosi membri dell’AQMI (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) si sono nascosti
fra la popolazione, mentre altri hanno lasciato il Mali per il sud della Libia, dove
hanno potuto ricostituirsi, reclutare e riarmarsi ed, allo stesso modo, Iyad Ag
Ghali, il capo tuareg del Movimento Ansar ed Din, mentre altri movimenti si sono
fusi per dare vita a nuove fazioni. I leaders del Mujao (Movimento per l’Unicità
ed il Jihad nell’Africa dell’Ovest), che raccoglie popolazioni Peul e Songhai e
quelli dei Signatari per il sangue di Mokhtar Belmokhtar hanno unito le loro
forze nel 2013 (circa 300 unità) nel movimento denominato Al Murabitun.
I GAT sono sopravvissuti, seguendo una strategia di basso profilo. Piuttosto che
ricercare lo scontro con le truppe francesi o maliane, essi hanno sviluppato una
strategia di imboscate e di usura sistematica, spesso notturna adottando una
condotta d’azione asimmetrica (attentati con bombe, veicoli al tritolo, posa di
mine artigianali). A partire dal 2015, essi hanno persino potuto attaccare
frontalmente alcune guarnigioni dell’esercito maliano nel nord est del paese, come
anche alcune caserme della missione dell’ONU, la MINUSMA, inviata sul posto a
sostegno dello Stato del Mali. Di 40 attacchi registrati nel corso del 2014, solo il
Mali ne ha ricevuti 90 nel corso dell’anno seguente. Questi attacchi sono stati
generalmente rivendicati, per il 40% da AQMI ed il 60% da Al Murabitun, per
molto tempo più pericoloso. Di fatto quest’ultimo risultava capace di intervenire a
sud del fiume Niger, come in effetti lo dimostrano gli attentati all’Hotel
Radisson di Bamako (20 novembre 2015), di Uagadugu (15 gennaio) e di Grand
Bassam nella Costa d’Avorio (13 marzo 2016).
Fra il 2015 ed il 2017, il jihadismo è diventato, a poco a poco, sempre più
aggressivo nel Mali, attaccando anche le stesse basi francesi ed ha potuto
migrare verso il sud della fascia sahelo-sahariana. Nel gennaio 2015, il gruppo
jihadista del Fronte di Liberazione del Macina (FLM) è comparso brutalmente
sulla scena, con l’obiettivo di estendere l’azione del jihad nel sud del Mali e
restaurare l’antico impero peul di Macina. L’evento ha messo in evidenza
l’arruolamento delle popolazioni peul del Mali, strette fra i Tuareg e gli
agricoltori maliani del sud, che rimproverano ai Peul le loro tradizioni pastorali.
Con la creazione dell’ISIS nel Medio Oriente, viene costituita nel Mali una sua
filiale, l’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara), insediato nella regione delle
tre frontiere, fra il Niger, il Mali ed il Burkina Faso, in una zona particolarmente
abbandonata, abitata da popolazioni povere, in maggioranza peul. L’efficacia e
l’aggressività del gruppo gli hanno consentito di uccidere quattro soldati
americani a Tongo Tongo nell’ottobre 2017 e di avere successo in un tragico
attacco contro la guarnigione maliana d’Inates, nel dicembre 2019, con ben 71
morti.
La propagazione dell’incendio dopo il 2017
La maggior parte degli attentati al di fuori del nord est del Mali, fra il 2015 ed il
2020, sono stati realizzati da sub sahariani che non hanno nulla del combattente,
giovani di una quindicina di anni, apparentemente radicalizzati, ma remunerati e
spinti al martirio. Il jihadismo è dunque sceso verso il Golfo della Guinea, dove i
GAT hanno potuto ricostituire un nuovo punto di ancoraggio.
Alcuni GAT si avvalgono di una base etnica e regionale (Il Movimento Nazionale
dell’Azawad, che è di origine tuareg o l’FLM che si basa sul popolo Peul), altri
sviluppano una retorica ideologica e religiosa jihadista (AQMI o Ansar ed Din).
Tutti si finanziano con traffici illeciti o imponendo tasse sulla popolazione che
controllano e si legittimano agli occhi della stessa popolazione con la pretesa di
incarnare la resistenza contro la brutalità dello Stato, contro gli stranieri e la
presenza francese.
L’arruolamento è volontario: esso è connesso con la presenza di gruppi armati a
prossimità dei luoghi di vita e della struttura della loro rete clandestina; essi
portano, a livello locale, sicurezza, stipendi ed armi di fronte alle altre etnie di
cui si diffida e nei confronti dei banditi e di briganti di strada. Il processo di
radicalizzazione o di indottrinamento religioso risulta un elemento secondario in
questo contesto.
I GAT eccellono nelle operazioni di sovversione (terrorismo, imboscate), ma
falliscono nell’azione di appropriarsi durevolmente di un territorio. In tal modo, la
l’influenza del Salafismo negli spiriti appare come la loro arma migliore, in quanto
offre la tacita complicità degli abitanti. La loro seconda possibilità si trova nella
rete “dell’internazionale jihadista”, le cui connessioni hanno avuto un sensibile
miglioramento a partire dal 2014. Il 2 marzo 2017 é stata annunciata la
formazione di una nuova organizzazione, il Gruppo per la Vittoria dell’Islam e dei
Mussulmani (GVIM), che è una fusione artificiale di Ansa ed Din, di AQMI, di Al
Murabitun e dell’FLM. La nuova struttura risulta diretta dal noto Iyad Ag Ghali,
ben consolidato localmente. Attraverso questa associazione, i GAT mettono in
comune le loro reti di collegamenti, le loro esperienze ed il frutto delle loro
operazioni. In tale contesto, il 13 agosto 2017, un attacco, coordinato dal GVIM,
ha ucciso 18 persone, fra le quali un Francese, ad Uagadugu (capitale del Burkina
Faso), città, fino a quel momento, risparmiata dalla minaccia.
La questione Tuareg
La questione Tuareg, che è stata al centro di tutte le rivolte del Mali e del Niger
e che ha provocato la crisi del 2012, non è stata minimamente risolta. L’MNLA si
è dissociato dai GAT islamisti al momento opportuno e, nel gennaio 2015, al fine
di apparire nel conflitto come un oppositore disposto al dialogo. I Gruppi
autonomisti, associati per diversi mesi ai jihadisti, si sono riuniti in una
Coordinazione dei Movimenti dell’Azawad (CMA), che afferma il suo supporto al
federalismo, con grande danno dei Maliani del sud. A causa dell’influenza dei
movimenti tuareg, la città di Kidal è stata occupata dai soldati francesi e ciadiani
e non dall’esercito nazionale del Mali. Questa vittoria nei confronti di Bamako é
stata uno schiaffo per i Maliani del sud. Inoltre, la firma dell’Accordo di Pace di
Uagadugu, il 18 giugno 2013, è stata considerata, da parte di molti attori locali,
poco più di un foglio di carta firmato, destinato a rassicurare la Francia. Il 20
giugno 2015 è stato, comunque, firmato l’Accordo finale di Pace di Bamako, che
prevedeva il disarmo dei combattenti e la loro integrazione nei ranghi
dell’esercito ed una decentralizzazione del potere. Altrettante promesse, già
concesse in precedenza ed ormai abbandonate da 20 anni.
Bamako ha dunque cercato di giocare sulle divisioni fra i Tuareg, servendosi del
colonnello Gamou, promosso generale. In tale contesto, con l’aiuto di militari
provenienti dagli Imghad, gli antichi servi dell’aristocrazia tuareg, egli ha
costituito il Gruppo di autodifesa tuareg imghad ed alleati (Gatia), che opera in
coordinazione con l’esercito maliano contro l’MLNA.
I Tuareg costituiscono il 4% della popolazione del Mali, che, ovviamente e
sebbene male delimitato, non può essere ulteriormente suddiviso, solo su questa
base demografica, tanto più che i tuareg non si associano all’MNLA, né al CMA. I
leaders tuareg non sono rappresentativi dell’insieme delle correnti dell’etnia,
come lo hanno dimostrato la costituzione del Gatia e gli scontri fra Tuareg a
Kidal, nell’agosto del 2016.
La questione tuareg riamane ancora oggi largamente insoluta. I Maliani del sud
credono ancora nella sopravvivenza della nazione maliana, spesso a danno dei
Tuareg, i quali non sono un blocco unito e la cui aristocrazia ha accettato tutte le
forme di compromesso per far rinascere il loro sogno di indipendenza: accordi
con i trafficanti di uomini e di droga, briganti di strada, islamisti e jihadisti.
La grande assenza dello Stato
La minaccia nel Sahel africano è diventata multiforme. Tutti i fattori tradizionali
di fragilità sociale e politica si sono accumulati e coniugati: le crisi agricole, la
povertà endemica, le rivendicazioni regionali, le ingiustizie sociali, la debolezza
degli Stati, le dirigenze corrotte e, più ancora, le tensioni etniche, che rallentano
la costruzione nazionale e l’iniziativa individuale. Il jihadismo non è dunque che
l’aspetto più saliente delle fratture accumulate e l’ultraviolenza risulta un arma
fortemente condivisa da tutti gli attori del conflitto: da parte delle ribellioni
tuareg, degli Stati, dei trafficanti e dei gruppi etnici che si sentono minacciati.
La nocività dei GAT prolifera sulla frammentazione sociale ed approfitta del
minimo segno di debolezza degli Stati del Sahel: dopo il tentativo di colpo di
stato, nel settembre 2015, nel Burkina Faso, le forze armate sono state messe
da parte con il parziale smantellamento delle truppe speciali. Ma è proprio questa
lacuna di sicurezza che ha consentito poi ad Al Murabitun di montare l’operazione
di Uagadugu nel 2015.
I Gruppi armati giocano anche sulla sensazione di abbandono vissuto dalle
popolazioni locali nelle regioni di frontiera, come anche nel Tillabery nigeriano o
nella zona delle Tre Frontiere e sul vittimismo delle popolazioni di fronte ad uno
Stato giudicato iniquo. Le lagnanze associano dunque la violenza dello Stato, la
sua cieca repressione e l’assenza di servizi pubblici. Lo Stato lascia vaste aree
del suo territorio in abbandono, senza provvedere, in alcun modo, alla sicurezza
dei suoi abitanti. Nel Niger, con 3 mila chilometri di frontiere senza sorveglianza,
i combattenti ribelli si possono spostare liberamente lungo la frontiera algerina.
Il sistema di intelligence dei GAT e la loro capacità di sfruttare le tensioni
sociali, canalizzando, in particolar modo, le frustrazioni della popolazione. Tutti
giocano sulla dimensione religiosa, anti occidentale e strumentalizzano le divisioni
etniche, i vecchi conflitti rurali e cittadini, fra pastori ed agricoltori.
La frammentazione comunitaria (2017-1019)
Dal 2017, l’insicurezza, la strutturazione per milizie della popolazione hanno
influenzato tutto il sud del Mali, il Burkina Faso, il Niger e la Nigeria. La minaccia
implica ormai il nord della Costa d’Avorio, l’est della Guinea Conakry ed il nord del
Benin e del Togo, dove pattuglie miste israeliane e togolesi cercano di impedire
l’intrusione di gruppi armati.
Ma il jihadismo non è più lo stesso e costituisce nella maggior parte dei casi
appena ad una facciata per le bande armate ed i flussi illegali. Nel Tibesti
ciadiano, la vecchia ribellione dei Tubus è in fase di rinascita, ravvivata dall’esca
dell’oro (scoperta di miniere). Ovunque, si sviluppano il contrabbando ed i traffici
illegali, dalla Libia fino al Mali, con la complicità tacita dell’esercito algerino. In
definitiva l’area vive ormai in questa confusione jihadista, terrorista di
popolazioni dedite alla pastorizia e di trafficanti. L’MSA (Movimento per la
Liberazione dell’Azawad, rappresentato in maggioranza dall’etnia Dussak Tuareg)
ed il Gatia dei Tuareg Imghad approfittano dell’instabilità per attaccare il loro
nemici Peul e Dozo, senza la minima prova che tali popolazioni siano realmente
implicate nel jihadismo. Nel marzo 2019, il villaggio maliano di Ogossagu è stato
devastato da cacciatori dozo della milizia tradizionale Dan Nan Ambassagu, che
ha condotto una caccia ai Peul nella zona, facendo più di 130 morti fra i civili.
L’ibridità totale sul terreno (criminalità, jihadismo, pastoralismo, traffici) rende
praticamente vane le operazioni contro il terrorismo: di fronte al numero
impressionante di soldati uccisi, i governanti del Sahel vogliono operazioni rapide
ed efficaci, al fine di mostrare la loro legittimità, ma senza concepire soluzioni
durature. Essi coltivano sottobanco lo sviluppo di un sentimento antifrancese
(aiutato non poco dalle recenti vicende dello scandalo del franco CFA), per
salvare la faccia di fronte alle loro opinioni pubbliche, ambiguità che molto
preoccupano il presidente francese che non ha mancato di sottolineare nel suo
discorso del gennaio 2020.
E’ arrivato il momento delle soluzioni ?
Tutti gli attori ufficiali hanno ormai preso atto della dimensione molto complessa
della situazione, ma la maggior parte di essi operano ancora in ordine sparso.
Parigi, da parte sua, ha fallito nel tentativo di coinvolgere nella questione i suoi
colleghi europei (eppure noi, questa volta, avremmo tutto l’interesse di bloccare i
trafficanti di uomini verso la Libia !). In effetti, la maggioranza dei paesi europei
non vogliono ritrovarsi in un nuovo vespaio di tipo “afghano” e, soprattutto, non
vogliono favorire la Francia nel suo sfacciato gioco geopolitico in Africa (vedasi
Libia). Occorrerebbe investire massicciamente nello sviluppo rurale, ma le
condizioni non lo permettono in alcun modo. Si parla di macadamizzare la strada
fra Gao e Kidal, ma, purtroppo, se ne parla da 30 anni …
Le operazioni militari continuano, ma senza una vera via di uscita a lungo termine.
La Francia, per tentare di adattarvisi, insiste per far rispettare l’Accordo di
pace del 2015 e nel gennaio 2020 ha creato la Forza Takuba, un Raggruppamento
di unità speciali internazionali. L’idea è quella di rinforzare le capacità di
combattimento dell’esercito maliano.
Dal lato dei Tuareg, i negoziati con il governo di Bamako hanno fatto dei
progressi, consentendo all’esercito maliano di recuperare, nel febbraio 2020, la
città di Kidal, da cui erano dovuti fuggire dal 2013. Ma questo ritorno dello Stato
nella zona settentrionale potrebbe rivelarsi provvisorio, in quanto tutto dipende
dall’atteggiamento del CMA e degli autonomisti tuareg.
Di fronte alla deliquescenza generale, lo Stato del Mali è sempre più tentato da
negoziati pericolosi: dal 2017, egli ha autorizzato la costituzione di milizie
comunitarie (Bambaras, Songhai e Dozo) per ridare sicurezza alle regioni
abbandonate dalla gendarmeria e dall’esercito, con il rischio, però, di lasciare
spazio ad un clima di vendette di tipo etnico. Dal gennaio 2020, Bamako ha
espresso il proposito di negoziare direttamente con Iyas Ag Ghali, il maliano, che
sperano di riportare alla ragione. Ma il capo del GVIM, che si trova in posizione di
forza, esige come atto preliminare l’uscita di scena dei Francesi e delle forze
armate straniere. In definitiva una situazione a dir poco … esplosiva
Altre soluzioni: soffiare sul fuoco esistente fra i diversi GAT per incitarli allo
scontro fratricida. In effetti, proprio a partire dal 2019 le tensioni fra il GVIM
e l’EIGS sono diventate sanguinose. Il primo cerca di interpretare il ruolo di
attore ragionevole nel conflitto, mentre il secondo rifiuta qualsiasi compromesso
e recluta sempre di più fra i giovani. In seno all’FLM, i più agitati vorrebbero
allearsi all’EIGS. In tale contesto, più i negoziati fra Bamako e Iyad Ag Ghali
procederanno in avanti, più i gruppi di divideranno, fatto che potrebbe
rappresentare per la Francia una maniera indiretta per indebolirli …
Infine, un’ultima ipotesi non è stata ufficialmente evocata, anche se determinati
attori vi fanno un pensiero: la partenza pura e semplice, vale a dire il ritiro delle
truppe francesi dal Sahel, lasciando i governi locali di fronte ad una situazione,
frutto di oltre 30 anni di incapacità e di imperizia. Ma, in questo caso, sarebbe
come accettare il crollo dell’intero Sahel nell’anarchia e nelle mani dei …
fondamentalisti: una eventualità certamente indesiderabile per la Francia, ma
anche per l’Occidente !!