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IACOPI DISCENDENZE E STORIA

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Povertà e carità nel medioevo

POVERTA’ e CARITA’ NEL MEDIOEVO

 

(Stampato su “SUBASIO” n. 1/15 del marzo 2007, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi)

 

Il dovere della carità nei confronti dei poveri, presenta nel medioevo molteplici aspetti e la stessa definizione di povero ha subito nel corso del tempo delle significative evoluzioni.

Tolomeo 3° d’Egitto venne soprannominato l’Evergeta (il Benefattore) per la qualità del suo buon governo e la fama di questo sovrano si era talmente diffusa nell’immaginario collettivo del mondo greco ed ellenistico, tanto da rappresentare, per tutti i monarchi e non dell’epoca, un modello comportamentale di riferimento, detto anche Evergetismo. Infatti l’Evergeta era colui che metteva in atto una pratica sociale, consistente nel distribuire una parte della sua fortuna a vantaggio della collettività, favorendo lavori pubblici, consentendo il rifornimento della città e la sua promozione ed aiutando ad onorare gli Dei attraverso feste o costruzione di templi. Chi praticava l’Evergetismo sperava, in cambio, di godere della considerazione dei propri concittadini e di continuare ad essere onorato nel tempo per i suoi atti nella memoria collettiva. Ma nel medioevo la Caritas, apportata dal Cristianesimo, rappresenta un concetto nuovo che riunisce, per amore di Dio, tutti gli uomini, figli di Dio e fratelli fra di loro, in una sola grande famiglia. Ne deriva conseguentemente il dovere per ciascuno della comunità di apportare un contributo o una assistenza, la cui finalità non è certamente la gloria di se stessi, come denunciato da San Paolo, ma il raggiungimento della perfezione di Dio. Questa Caritas non è una azione rumorosa da show, o peggio da show business, ma una necessità quotidiana per la salvezza di tutti, per tutto il corso della vita. L’atto di carità si costruisce pertanto nella continuità e nell’umiltà. Il Corpo dottrinale della Caritas e le attività connesse si sono consolidate nel periodo alto medievale per trovare successivamente una definitiva sistematizzazione nel corso del medioevo

La nozione di “povertà”

San Matteo aveva definito sette opere da compiere da parte dei fedeli: visitare i malati, dare da bere agli assetati, nutrire gli affamati, occuparsi dei carcerati, vestire gli ignudi, accogliere gli stranieri e seppellire i morti. Il mondo della carità del medioevo è dunque ampio, poiché abbraccia tutta la società nella sua quotidianità, la malattia, la morte, i viaggi, i prigionieri e quelli che vengono chiamati in maniera più generale i “poveri”. Termine che si applica ad un vasto gruppo nel quadro di una società, in genere economicamente depressa. Nei testi il “pauper” ha come sinonimo egenuus (libero), laborator (bracciante), agricola (agricoltore), rusticus (contadino), in opposizione a potens (potente), miles (soldato, cavaliere), civis (cittadino).

Queste diverse categorie, in degli schemi sociali organizzativi più o meno complessi, non lasciano intravedere dei “pauperes indigentes et famelicos”, vale a dire degli individui vittime di un cambiamento di fortuna o di una esiziale congiuntura. Ma ugualmente il pauper colpito da infirmitas è a quel punto aegrotus (malato), infirmus (debole fisicamente), debilis, imbecillus (insensato e debole di spirito) oppure decrepitus (molto vecchio). Questo secondo caso di pauper può essere conseguenza diretta della precedente condizione, ma anche una condizione temporanea, legata ad un dato momento della vita. C’è infine da considerare la problematica della povertà volontaria (preti, monaci), che però non sembra sposarsi alle precedenti condizioni.

La Chiesa ha sollecitato gli uomini del medioevo su questi differenti stati di povertà, come lo attestano molti prologhi di atti di donazione, invitanti all’elemosina attraverso la mediazione della Chiesa, incaricata del mantenimento dei poveri. Per comprendere meglio il problema del “dovere della carità” conviene esaminare i vari attori interessati, sotto l’aspetto delle loro motivazioni e delle loro implicazioni.

I grandi principi delle origini

La Chiesa ha, in una certa misura, continuato la tradizione imperiale romana della beneficenza, come i lavori pubblici, il riscatto dei prigionieri e le distribuzioni gratuite alle porte delle chiese e dei monasteri. Questo è stato il caso dell’istituzione dei diaconati in Oriente, descritti da Giovanni Cassiano (420 - 430) nelle sue conferenze. Ogni diaconato, diretto da un monaco, eletto annualmente, riceveva dai contadini del vicinato la decima dei loro raccolti destinata ai poveri. La vita di S. Melania (399 - 439) evidenzia nel suo contesto la compilazione di liste dei poveri, destinati a ricevere distribuzioni di viveri. Infine Papa Leone Magno, dopo i torbidi eventi del 410 (sacco di Roma da parte di Alarico), mette in opera un sistema identico anche in Italia. I diaconati occupavano a quel tempo i locali della Pubblica Annona. Preoccupati per le ricchezze fondiarie della Chiesa e del rischio di vassallaggio al potere, i monaci martiniani spingevano a far accettare e dichiarare che il patrimonio della Chiesa era quello dei poveri, ciò che fu confermato nel 442 dal Concilio di Vaison. Nel 506, il canone (decreto di un concilio) n. 4 del Concilio di Agde precisava che i chierici o i laici, se cercavano di trattenere le offerte dei defunti e le elemosine dei fedeli necessarie per sfamare i poveri, sarebbero stati considerati come dei “Necatores Pauperum” (assassini dei poveri). Questa espressione fu sistematicamente ripresa per tutto l’alto medioevo e più in particolare all’epoca di Carlo Martello per denunciare le confische e le usurpazioni dei beni ecclesiastici, attività alle quali si dedicavano volentieri i potenti laici dell’epoca merovingia. Questo canone dovrebbe anche oggi essere “rispolverato” e sottolineato per tutta quella massa di ambigui personaggi e di numeri verdi che si ripresentano puntualmente in occasione di calamità pubbliche nazionali ed internazionali e che contribuiscono ad affievolire lo spirito di carità e la fiducia del prossimo. Peraltro era necessario ed utile ricordare in permanenza ai chierici ed ai vescovi di accogliere i poveri nelle loro dimore, il cui accesso era interdetto insieme ai cani, così come la consuetudine di utilizzare e di fare versare, per le necessità dei poveri, le decime dei raccolti, il cui versamento era in gran parte negletto da parte dei cristiani (Concilio di Macon del 585).

Il dovere della carità non era purtroppo un fatto automatico anche all’interno della stessa Chiesa. Occorreva pertanto definire le necessità e conseguentemente allocarvi delle risorse, attività nelle quali si sono impegnate le autorità ecclesiastiche e laiche nel corso dei secoli.

Percezione dei bisogni ed istituzioni connesse

La Matricola dei poveri. L’istituzione verso la fine del 4° secolo del ruolo dei poveri, associato ai diaconati, ma anche all’ospedale ospizio (xenodochion), è la chiara testimonianza della necessità di organizzare la carità, vista anche come mezzo fondamentale per cautelarsi dalle rivolte popolari. Si trattava in questo caso di individuare i poveri “ufficiali”, autorizzati a mendicare alla porta delle chiese, che beneficiavano, tra l’altro, di entrate regolari da parte del vescovo in cambio della effettuazione di compiti minuti nel campo liturgico e di assistere agli uffici. Questo comportamento pone un interrogativo ricorrente sull’effettivo significato della povertà: miseria vera o pigrizia, ma anche la preoccupazione di rispondere a delle esigenze reali come quello di costringere all’atto caritatevole i fedeli che non rispettano la decima, le offerte e le messe domenicali. I vari concili perseguiranno questa azione, identificando le differenti categorie dei poveri. Quello di Orleans del 511 effettua una distinzione fra poveri, infermi e prigionieri; nel 549 un altro Concilio parla espressamente dei malati, dei pellegrini e di quelli in stato di necessità (i lebbrosi in particolare). Il Concilio di Macon del 585 si occuperà delle vedove e degli orfani e quello di Tours del 567 insisterà sulla necessità di sedentarizzare e stabilizzare i poveri, per evitare il vagabondaggio attraverso le città.

I Luoghi deputati. All’epoca carolingia la legislazione riafferma i grandi principi, riconoscendo ai vescovi, ma anche ai sovrani, un dovere identico di protezione dei poveri, la stessa si sforza di individuare anche un certo numero di esigenze. I Capitolari (testo legislativo dell’imperatore) “ex lege romana excerpta” dell’826 ricordano tutta una serie di istituzioni caritatevoli, precisandone i compiti. Tutti i luoghi vengono descritti come forniti di camere, vicine ad un pozzo o una sorgente e ad una chiesa: il Ptochotrophion per i poveri e gli infermi, il Nosochomium per i malati, l’Orphanatrophium per gli orfani, il Gerontochomium per i poveri vecchi infermi; il Brephotophium per i bambini abbandonati. Tutte queste sfumature mostrano che esiste la coscienza dell’esistenza di quattro tipi di poveri: i deboli, i malati, i vecchi e l’infanzia. E’ peraltro verosimile che una stessa infrastruttura, monastero o chiesa con a disposizione di personale fisso, poteva ricevere indistintamente tutti questi tipi di persone, appartenenti ai due sessi, ma essi venivano comunque distinti da quelli che beneficiavano di distribuzioni gratuite secondo gli elenchi delle matricole, così come i pellegrini ricchi o i nobili venivano accolti a parte.

Durante il periodo fra l’11° ed 14° secolo appaiono dei nuovi problemi, legati all’aumento della popolazione, all’immigrazione dalle campagne nelle città, ma anche ad una povertà strutturale connessa con le difficoltà economiche (quelli che vengono chiamati poveri attivi), oltre ai precedenti gruppi di poveri. In questo periodo, specie nel 12° secolo, aumenta il numero dei lebbrosi a seguito dei contatti con l’Oriente e per i quali vengono costruiti dei lebbrosari; allo stesso modo i pazzi, prima tollerati, poi rinchiusi in un monastero o in una porta della città: le prime case per i matti appaiono effettivamente intorno al 14° secolo. Da ultimo occorre segnale i ciechi ed i trovatelli. Per far fronte a tali esigenze vengono fondati numerosi ospedali/ospizi polivalenti che accolgono senza distinzioni, malati, infermi, pellegrini o vagabondi come nel periodo anteriore.

Il Ruolo delle Confraternite. Prima di scomparire nel 14° secolo, questo processo di costruzione di ospizi si trova collegato con un aiuto privato proveniente da confraternite laiche, che distribuivano pane, abiti, calzari o altre cose per mezzo di “elemosine, carità e tavole del Santo Spirito”. Queste funzionavano come uffici di beneficenza e di soccorso mutuo. I pasti in occasione di funerali o associati a feste liturgiche o patronali, come anche le distribuzioni previste per testamento, costituivano delle forme di solidarietà a garanzia della pace sociale. Gli artigiani ed i borghesi delle città si sforzavano anche di fondare delle case per i loro infermi o vecchi con diritto di accesso e corredo prestabiliti. Tutto questo doveva aprire la strada, nel 15° e 16° secolo, alla “comunalizzazione” delle istituzioni di carità con personale dallo statuto religioso (suore nere o grigie). Questa evoluzione è la conseguenza di un approfondimento spirituale nel senso di una religione più impegnata da parte dei laici nel sociale, ma anche di un accrescimento e di una differenziazione di esigenze, sempre e tutte nel senso di salvaguardarsi dalle sommosse popolari.

Raccolta ed allocazione delle risorse

Per rispondere alle differenti esigenze sopradette, era pertanto necessario, come lo diceva S. Matteo, “di costituire un tesoro, sacrificando le vane ricchezze”. In termini più chiari, le risorse della carità sono legate alle attività economiche, mercantili, ma soprattutto agricole nel Medioevo. Si tratta a questo punto di esaminare come tali risorse sono state orientate alle attività di carità nei differenti periodi.

Beni del fisco e del popolo. In occasione del Concilio di Orleans del 511, Clodoveo aveva chiaramente definito il modo di gestione del patrimonio ecclesiastico. Veniva posto sotto la sola ed unica responsabilità del vescovo, assistito nella gestione corrente dall’arcidiacono e dai diaconi. Era ripartito per quattro funzioni principali: costruzione e riparazione delle chiese o di infrastrutture caritatevoli, mantenimento dei preti, sostentamento dei poveri e dei prigionieri. Questa ripartizione risaliva all’epoca del pontificato di Simpliciano e quindi di Gelasio nella seconda metà del 5° secolo. Il capitale del patrimonio delle chiese era allora costituito da terre del fisco (insieme di beni e terre di proprietà reale), le eredità dei chierici e dei vescovi, ai quali si aggiungevano le donazioni immobiliari ottenute nelle parrocchie (terre, vigne, schiavi ed animali). Tutti questi beni rimanevano di diretta pertinenza e gestione del vescovo; la destinazione ne era la riparazione o la costruzione di infrastrutture (chiese, monasteri e xenodochion) o ancora la divisione in posti canonici assegnati al sostentamento dei preti delle parrocchie, ma anche ai poveri, iscritti in numero limitato sul ruolo della matricola. Accanto a questo capitale in terre, c’erano i doni reali in argento ed oro, spesso assegnati per scopi precisi e le offerte dei fedeli deposte sotto l’altare (abiti, alimenti, vino) che assicuravano il supporto quotidiano dei poveri. Ma tutto questo rimaneva largamente insufficiente e la decima doveva costituire la principale risorsa delle entrate. Il Concilio di Macon del 585 ricorda a tal proposito che la decima doveva permettere ai preti di badare al ministero spirituale ad ore stabilite, ma di fatto a causa della negligenza nei versamenti da parte dei fedeli, la stessa non permetteva di rispondere alle necessità dei poveri ed al riscatto dei prigionieri. Questa “negligenza” é in effetti un segno sintomatico della difficoltà che le popolazioni impoverite avevano nell’assicurare una attività di carità quotidiana. Era dunque necessario ed in permanenza trovare delle nuove voci di entrate, sia ottenendo maggiori concessioni reali o dei grandi feudatari, sia ottenendo delle eredità o doni da parte delle vedove dell’aristocrazia. La carità nell’epoca carolingia implicava una partecipazione attiva da parte dei vescovi e dei grandi signori, per i quali era stata elaborata una teoria politica di protezione dei poveri ispirata al comportamento dei Re dell’Antico Testamento.

Disporre di risorse implicava una gestione rigorosa con l’obbligo permanente di fare degli inventari, di rendere il conto, di vigilare scrupolosamente sulle terre date in precariato (beni ecclesiastici o reali concessi per un determinato tempo) a laici o religiosi. In nessun caso un dono di un vescovo o di una fondazione poteva essere fatto a danno delle risorse di bilancio collettive: in tale contesto nuove fondazioni di chiese o di oratori privati, erano autorizzati solamente se il proprietario vi collegava fondi propri oppure nuove risorse. In effetti nella fondazione dello xenodochion di Lione, ottenuto con fondi reali, i vescovi si impegnano, da parte loro, al regolamento ed al conto delle spese. Essi si impegnano altresì a far rispettare i beni e le persone impiegate nel predetto istituto, in modo da assicurare la sua permanenza e la stabilità ed a non sottrarre, ritirare o stornare nulla, sotto la pena di essere trattati come necator pauperum (assassini dei poveri) e quindi di essere colpiti da anatema. Questo sistema di finanziamento molto complesso è stato oggetto di continui richiami nel periodo carolingio, segno evidente che lo storno da parte dei signori locali era indubbiamente all’ordine del giorno.

Doni e legati. Il periodo dall’11° al 14° secolo vedono moltiplicarsi le iniziative di fondazioni nei testamenti dei privati di ogni condizione sociale in favore di ordini specializzati come gli Ospedalieri di S. Giovanni (Malta), i Templari o il Santo Spirito. Questo è il segno del fervore dei tempi. Da un certo punto di vista l’opera di carità si inscrive principalmente nel contesto locale, come è dimostrato dal fatto di riservare gli ospedali ai borghesi del luogo sotto il nome di Ospizio di Dio, delle case per i poveri di passaggio, in modo da accogliere per una notte dei pellegrini, dei venditori ambulanti o dei lavoratori in cerca di impiego. Ma la stessa assume anche una dimensione più ampia e più specializzata attraverso l’opera delle confraternite (penitenti, trinitari, mercedari), orientata alla liberazione dei prigionieri, al recupero delle prostitute, degli studenti (per i quali vengono creati dei collegi), alla guida dei viaggiatori, senza dimenticare l’istituzione di un gruppo di poveri in ogni luogo di culto. Tuttavia, queste associazioni o le case erano troppo piccole e non disponevano assolutamente di risorse sufficienti; a tutto questo si aggiungeva il rischio dell’appropriazione di prebende (proventi fissi concessi ad un ecclesiastico sui beni di una chiesa o di un monastero) da parte di borghesi agiati, che stornavano la distribuzione a loro profitto, oppure anche dell’accaparramento di incarichi negli ospedali, trasformati in benefici ecclesiastici. E tutto questo ad ulteriore danno dei soggetti meno fortunati.

Queste situazioni sfociano inesorabilmente in crisi di fiducia e nella necessità di ricordare a tutti lo spirito originale delle cose, conducendo a delle riforme ed all’elaborazione di nuove strutture: raggruppamento delle associazioni e delle piccole case in strutture più grandi controllate dallo stato per la distribuzione di fondi o controllate dai magistrati delle città.

In definitiva il dovere di carità nel medioevo ha subito nel corso dei secoli una lenta e continua trasformazione e sistematizzazione, adattandosi progressivamente alle necessità ed ai bisogni dei poveri, dopo averli identificati ed attribuendovi, conseguentemente, le opportune risorse in fondi e personale. Col tempo e con il crescere delle esigenze, vengono orientate a tal fine sempre maggiori risorse e soprattutto personale, sempre più specializzato, laico o religioso, posto sotto il controllo delle autorità religiose o pubbliche, le prime mosse dalla dottrina religiosa e le altre pervase da una teoria del potere che ha l’obbligo di assicurare la protezione e la pace pubblica.

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