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IACOPI DISCENDENZE E STORIA

Una vita di ricerche per conoscere chi sono.

  

Il ritorno in Russia di Denikin

Il ritorno in Russia di Denikin

Incredibile ed inimmaginabile, la storia ci sorprende, ovvero

la “rivincita dei vinti”.

 

(stampato sul quotidiano La CRONACA di Piacenza)

 

Vladimir Putin ha mantenuto la sua parola !. Le spoglie del generale Anton Ivanovitch Denikin (1872 - 1947), vecchio Comandante in Capo delle Armate Bianche, e quella di sua moglie Xenia, sono state rimpatriate in Russia dalla località di Ann Arbor nel Michigan (USA), dove avevano chiuso in esilio i loro giorni. La coppia è stata solennemente tumulata con gli onori militari il 3 ottobre 2005 nel monastero Donskoie di Mosca. La cerimonia è stata presieduta dal Patriarca ortodosso di Mosca, Alessio 2° alla presenza del Sindaco della città e di un rappresentante del Presidente Putin, all’estero per altri impegni.

La cerimonia di Mosca era stata preceduta, tre giorni prima a Parigi, dove le salme avevano fatto scalo, da una imponente servizio funebre nella cattedrale ortodossa alla presenza dell’ambasciatore russo e della famiglia della figlia dello stesso generale Denikin, Marina Grey.

Due giorni dopo la sepoltura ufficiale, le cerimonie hanno avuto un ulteriore importante seguito. Il Presidente Putin, rientrato a Mosca, ha organizzato un ricevimento al Cremlino in onore dei familiari della figlia del generale, che per l’occasione ha donato alla Russia la Sciabola del proprio genitore, recante scolpita la Croce di S. Giorgio, sciabola che sarà conservata ed esposta al museo di storia militare della capitale. In tale occasione Putin ha esaltato il significato simbolico di questo gesto che marca la riconciliazione della Russia con il suo passato, al di là delle divisioni create dalla rivoluzione e dalla guerra civile.

Sappiamo che Anton Denikin è stato il più celebre dei generali “bianchi” della guerra civile. Suo padre era un servo della gleba che, dopo aver servito come soldato nell’Esercito zarista per oltre 20 anni, è diventato ufficiale ed ha concluso la sua carriera con il grado di Maggiore. Quattro anni più tardi ha un figlio, che sarà il futuro generale.

Anton, dopo gli studi secondari, entra in una scuola ufficiali dell’esercito zarista, dalla quale esce con le spalline di Sottotenente d’Artiglieria. Egli riceve il battesimo del fuoco nel 1904 in occasione della Campagna della Manciuria e nel 1914, con il grado di Generale di Brigata, conduce in battaglia la famosa “Divisione di Ferro” e si distingue nel corso del 1916 per il ruolo rivestito nell’offensiva vittoriosa contro gli Austro-ungarici, guidata dal generale Brussilow.

Nel marzo 1917, quando scoppia la prima rivoluzione, detta “democratica”, egli assiste senza rimpianti alla scomparsa dello zarismo, che tanta considerazione aveva perso nell’opinione pubblica nel corso degli ultimi anni di regno di Nicola 2°. Denikin appare decisamente favorevole ad una Russia repubblicana, “una ed indivisibile”. Alla fine del 1917 egli si unisce al generale Alexeiev, quando questi organizza il primo esercito di “Volontari anti bolscevichi” nei territori del Don. Agli inizi del 1918 Denikin prende parte alla terribile Campagna di Kuban e nel corso di questa campagna, il 31 marzo 1918, alla morte del generale Kornilov, egli viene designato dai suoi pari, a soli 46 anni, ad assumere il comando dell’Esercito dei Volontari.

Con il sostegno morale degli Alleati occidentali e con l’appoggio delle armate cosacche, egli diventa nel gennaio 1919 il Comandante in Capo delle Armate Bianche della Russia del Sud. Nel frattempo egli ha riconosciuto l’autorità formale dell’ammiraglio Koltchak, che in Siberia occidentale è stato proclamato Capo Supremo e “Reggente” della Russia. All’inizio del 1919 Denikin lancia un’offensiva, inizialmente vittoriosa, in direzione di Mosca, riportando una serie di successi, scanditi in particolare dalla conquista, il 17 giugno, di Tzaritsyn da parte del generale Wrangel. A Mosca, Lenin ed i bolscevichi vivono ore di apprensione e temono il peggio. Ma la situazione inizia a cambiare rapidamente. Le retroguardie di Denikin vengono disarticolate dall’azione dei partigiani di Makno e la crisi delle retrovie bianche determina la fine dell’offensiva ed il riflusso nell’ottobre 1919 delle forze bianche. Nel marzo 1920, la sua offensiva nel Kuban termina in un fallimento e segna l’inizio della fine. Denikin a questo punto decide di dare le dimissioni, venendo sostituito, il 4 aprile 1920, dal generale Wrangel.

Il generale Denikin, estraneo a qualsiasi ambizione di tipo politico, vittima del suo rifiuto di scendere a compromesso con i fautori delle “nazionalità”, è rimasto, nelle circostanze terribilmente difficili della guerra civile, prima di tutto un soldato ed a questo titolo si è guadagnato il rispetto della storia. Esiliato prima in Inghilterra, quindi in Francia, nel 1945 si rifugia negli Stati Uniti, dove termina i suoi giorni l’8 agosto 1947. Agli occhi di tutti il nome di Denikin, questo soldato patriota, leale, coraggioso e ligio al dovere, simbolizza più di ogni altro in maniera compiuta la tragica lotta delle Armate Bianche. 

Un Impero minacciato

Un Impero minacciato

 

(Pubblicato su Impero Romano d’Oriente di novembre 2006)

 

Fra ripiegamenti e rinascite, Costantinopoli si dibatte per sopravvivere e preservare la preziosa antica eredità che è riuscita ad integrare nel suo mondo.

D

erivata dalla disintegrazione dell’Impero Romano, Bisanzio trova le sue origini nella riforma politica di Diocleziano (istituzione della Tetrarchia che conduce alla divisione dell’Impero in quattro grandi circoscrizioni) e di Costantino il Grande (elevazione di Costantinopoli al rango di capitale dell’impero nel 330).

Sintesi originale fra le strutture politiche della Roma imperiale, l’eredità culturale greca e la fede cristiana, l’evento bizantino deve essere considerato come un prolungamento dell’impero romano, di cui Costantinopoli rivendica l’eredità. In effetti la città, fino alla sua caduta, si è sempre considerata come la testa del solo ed unico impero terrestre legittimo ed essa ha sempre teso a recuperare l’Imperium sugli antichi territori dell’Orbis Romanum (mondo romano), calco dell’ Oecumenè (la terra) cristiano.

Colpito duramente dai “Barbari”, l’impero si risolleva sotto il regno di Giustiniano (527-565) - riconquista dell’Italia e del nord dell’Africa - prima di sfaldarsi sotto i colpi degli Slavi, dei Parti e quindi degli Arabi. Una brillante fase di rinascita avviene sotto la dinastia dei Macedoni ed in particolare sotto il regno di Basilio 2° (976-1025), che ristabilisce la potenza bizantina nei Balcani.

Dei pericolosi vicini

Tuttavia a partire dall’11° secolo Costantinopoli deve far fronte ad un nuovo temibile avversario: i Turchi Selgiuchidi. Di fronte a questa minaccia l’imperatore Romano 4° Diogene (1068-71) ingaggia una lotta a fondo, ma deve soccombere nella terribile disfatta di Manzikert (Manziscerta) il 19 agosto 1971. In conseguenza di questa sconfitta la frontiera orientale dell’impero viene letteralmente sfondata e l’ondata turca infiltrandosi nella breccia non si arresta che alle porte di Costantinopoli (Nicea sarà raggiunta nel 1078).

Peraltro. i Normanni di Roberto il Guiscardo scacciano i Bizantini dai loro ultimi bastioni (conquista di Bari nel 1071-72) in Italia. L’impero di fronte ad una situazione veramente grave si abbandona nelle braccia di uno dei suoi più grandi generali: Alessio 1° Comneno (1081-1118), fondatore di una delle più prestigiose dinastie imperiali. La minaccia più urgente da affrontare appare quella dei Normanni ed Alessio, pensa di affrontarla una volta fatta la pace con i Turchi e con l’aiuto di Venezia, a sua volta minacciata nei suoi interessi commerciali dell’espansione normanna. Il conflitto si trascina peraltro incerto fino al 1083, data della morte di peste da parte di Roberto il Guiscardo.

I Crociati alleati o nemici ?

Ciò nondimeno si presentano all’orizzonte i guerrieri della 1^ crociata, predicata da Papa Urbano 2° nel 1095. Giunti sotto le mura di Costantinopoli nel 1096, i crociati trattano con Alessio e promettono, in cambio dell’aiuto bizantino, di restituire all’impero tutti i territori che riusciranno a conquistare, a condizione che gli stessi fossero sotto l’autorità di Bisanzio prima della conquista dei Selgiuchidi. In tal modo Nicea ritorna sotto il dominio di Costantinopoli e dopo l’importante vittoria di Dorileo (1097), riportata contro le forze del sultano selgiuchidi Kili Arslan (1092-1107), l’Impero rientra in possesso di Smirne, Efeso e Sardi.

Tuttavia, a seguito della conquista di Antiochia nel 1098, il rifiuto del normanno Beomondo di Taranto di restituire la città a Bisanzio mette in evidenza tutti i limiti dell’accordo e il fondo di animosità che animava ancora i Normanni nei confronti dei Bizantini.

Nel 1147 un nuovo attacco viene condotto dal normanno Ruggero 2° di Sicilia contro l’Impero bizantino e si conclude con la conquista di Corfù, di Corinto e di Tebe, grandi centri dell’industria della seta, principale ricchezza di Bisanzio. Con l’aiuto di Venezia ed in cambio di nuovi privilegi commerciali, l’imperatore Manuele Comneno riesce a riprendere il controllo di Corfù e quindi rimette nuovamente piede nel sud dell’Italia, dove riconquista temporaneamente la Puglia. La reazione occidentale è immediata: e nel 1156 Guglielmo 1° di Sicilia scaccia definitivamente i Bizantini dalla penisola.

Venezia superpotenza

Manuele, preoccupato per l’importante ruolo acquisto da Venezia a Costantinopoli, inizia ad accordare dei privilegi commerciali ai suoi rivali (Genova nel 1169; Pisa nel 1170). Ma più grave ancora, nel 1171, i Veneziani residenti sul territorio bizantino vengono arrestati con la confisca dei loro beni. Questo evento è in pratica il preludio al pogrom del 1182 durante il quale gli abitanti di Costantinopoli, eccitati dalla ricchezza sempre crescente delle locali colonie latine, massacrano in grande numero i mercanti occidentali, giudicati troppo arroganti.

Questo massacro viene a costituire uno dei motivi decisivi, per il Doge veneziano Dandolo, per desiderare ardentemente “la distruzione dell’Impero bizantino, come condizione preliminare al consolidamento durevole dell’egemonia veneziana in Oriente”.

Questo obiettivo primario veneziano porta, in pratica, alla deviazione della quarta crociata, alla conquista ed al sacco di Costantinopoli del 13 aprile 1204 ed all’instaurazione dell’Impero Latino di Costantinopoli, il cui primo sovrano è stato Baldovino di Fiandra, incoronato il 16 maggio seguente a S. Sofia.

L’impero spezzettato

Caduta Costantinopoli nelle mani dei crociati, vengono rapidamente a costituirsi tre stati rivali, fondati dall’aristocrazia bizantina: in Asia Minore Teodoro Lascaris crea il Principato di Nicea, in Grecia occidentale Michele Angelo fonda il Despotato dell’Epiro, mentre a Trebisonda regnavano già i Grandi Comneno: Alessio e Davide.

Trebisonda, rapidamente divenuta vassallo dei Selgiuchidi (1214), poi dei Mongoli, approfitta della “pax mongolica” e della deviazione delle vie commerciali indiane dal mar Rosso e dalla Siria verso il Cucaso ed il mar Nero, per entrare in una fase economica di grande prosperità commerciale sotto il regno di Alessio 2° Comneno (1207-1330). Il suo splendore artistico, culturale ed intellettuale durerà fino al 1461, quando cadrà sotto il dominio degli Ottomani.

A Nicea Teodoro Lascaris, approfittando dello smarrimento dei Latini conseguente alla disfatta del loro esercito ad Adrianopoli da parte dei Bulgari (1205), può estendere la sua influenza a quasi tutta la totalità dell’antica Asia minore occidentale. Egli si pone come l’unico successore legittimo dell’Imperatore di Costantinopoli, legittimità rinforzata dalla presenza al suo fianco, del Patriarca di Nicea, il solo capo riconosciuto della Chiesa ortodossa.

Nel frattempo il Despota d’Epiro, Teodoro Angelo, si impadronisce della latina Salonicco (1224) dove si fa incoronare imperatore. Ma poco dopo, mentre progetta di marciare su Costantinopoli, viene sbaragliato dai Bulgari dello zar Giovanni Asen 2° (1230).

Solamente il pericolo mongolo concorre a mantenere in vita l’Impero Latino di Costantinopoli. In effetti, di fronte a questa minaccia, il successore di Teodoro Lascaris, Giovanni 3° Vatatzes (1222-1254), decide di proteggere le sue frontiere orientali alleandosi con i Selgiuchidi, mentre i suoi due rivali sono messi a mal partito dall’invasione mongola. Approfittando del loro indebolimento, Vatatzes conquista Salonicco e la Macedonia (1246). Egli riorganizza il Principato di Nicea, ricorrendo alla pratica della consegna di beni militari affidati a soldati contadini sulle frontiere. Inoltre proibisce qualsiasi acquisto di prodotti di lusso e dispone del pagamento in oro per le mercanzie vendute ai Turchi.

Vatatzes, in virtù della sua accorta politica, apre la strada alla ultima rinascita bizantina, quella dei Paleologi, dei quali Mistra nella Morea è stato il loro principale centro di irradiazione. Il suo successore Teodoro 2° Lascaris (1254-58) trasforma la corte di Nicea in un  brillante centro scientifico. Suo figlio Giovanni 4° Lascaris non avrà il piacere di continuare su questa strada perché viene detronizzato dal generale Michele 8° Paleologo (1259-1282).

La spossante riconquista dei Paleologi

Michele Paleologo, subito dopo essere stato rivestito della porpora imperiale, deve far fronte ad una vasta coalizione composta da Manfredi di Sicilia, dal Despota dell’Epiro e dal Principe d’Acaja, il latino Guglielmo di Villehardeuoin, sovrano anche del Ducato di Atene, coalizione sostenuta dal Re dei Serbi, Uroch 1°. Riuscito a vincere miracolosamente i coalizzati nella battaglia di Pelagonia nel Peloponneso nel 1259, l’imperatore inizia dei contatti con Genova per premunirsi di un ritorno in forze di Venezia, nel 1261 egli firma il Trattato di Nympheon che sarà all’origine della potenza genovese nel mediterraneo orientale.

Lo stesso anno Costantinopoli cade come un frutto maturo nelle mani del generale bizantino Strategopulos, segnando la fine dell’Impero Latino. La città esce terribilmente impoverita da questo periodo: oltre ad aver perso lo statuto di grande potenza, la sua economia ed il suo commercio si trovano interamente nelle mani dei mercanti genovesi e veneziani, che tengono ancora importanti posizioni in Grecia e che cercheranno nuovamente di imporre il loro predominio.

Peraltro Bisanzio trova un nuovo avversario nella persona di Carlo d’Angiò, nuovo padrone della Sicilia ed alleato dei feudali di Acaja. Alleato ai Bulgari ed ai Serbi, il suo esercito, trasportato dalla flotta veneziana, entra in campagna. La nuova caduta di Costantinopoli sembra ormai imminente, quando i Vespri Siciliani (1282) e l’intervento di Pietro d’Aragona a Palermo, abilmente spinto e finanziato alle spalle da Michele 8°, forzano Carlo d’Angiò ad una precipitosa ritirata.

Pertanto, spossato da tutti questi sforzi, l’Impero di Andronico 2° Paleologo (1282-1328) comincia a disgregarsi in principati quasi indipendenti. Il feudalesimo bizantino raggiunge il suo punto culminante nel corso del 14° secolo. Completamente a corto di fondi, l’autorità centrale incontra indicibili difficoltà a mantenere alle armi un piccolo esercito di mercenari (3 mila cavalieri), del tutto incapace a fronteggiare le invasioni serbe. L’errore fatale ed esiziale sarà poi quello di rinunciare, sotto la spinta delle ristrettezze economiche, al mantenimento di una flotta degna di questo nome.

ISLAMISMO, l’altro vincitore della Guerra dei 6 Giorni

ISLAMISMO,

l’altro vincitore della Guerra dei 6 Giorni

(Conferenza tenuta il 10 aprile 2008 presso il Dipartimento di Scienze Storiche della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Perugia).

Il conflitto del giugno 1967 non è stato marcato solamente dalla vittoria dell’Esercito israeliano sulle forze militari egiziane-siro-giordane. Esso ha provocato nel Vicino Oriente la caduta del panarabismo o del nasserismo a vantaggio dell’islamismo ed anche la contestazione del sionismo da parte di un fondamentalismo biblico in Israele.

Israele, all’alba del 5 giugno 1967, minacciato di sopravvivenza alla sue frontiere dagli stati arabi suoi confinanti, passa all’offensiva. La sera della prima giornata di combattimenti oltre metà dell’aviazione araba risulta distrutta e la sera del sesto giorno di guerra gli eserciti egiziani, giordani e siriani sono ormai sconfitti. I carri armati del Tsahal hanno fortemente scosso gli avversari su tutti i fronti di guerra. In meno di una settimana lo stato ebreo ha triplicato la sua superficie: l’Egitto ha perduto Gaza ed il Sinai, La Siria è stata amputata della regione del Golan e la Giordania ha perduto la Cisgiorgania, che aveva unilateralmente annesso nel 1950. L’aspetto più mortificante e simbolico della sconfitta araba è rappresentato dalla conquista israeliana della città vecchia di Gerusalemme. La città delle tre religioni del Libro, annessa allo stato ebraico, diventa la Capitale di Israele, fatto peraltro non riconosciuto dalla maggior parte della comunità internazionale.

L’Arabismo (1), discreditato, affonda insieme agli eserciti arabi; molto presto l’Islamismo (2), il petrolio e la resistenza palestinese diventeranno i motori della causa araba, mentre la sconfitta militare sanziona il fallimento della precedente politica. Il cedimento degli stati apre una crisi politica di grande ampiezza che erode e distrugge la legittimità delle élites laiche al potere: Nasser in Egitto, El Atassi in Siria. Il 28 settembre 1970 milioni di Egiziani, in una immensa agitazione collettiva, spazzano il servizio d’ordine e gli ufficiali si impadroniscono della bara di Nasser e la portano alla sepoltura in un ultimo disperato omaggio a colui che era stato il leader del mondo arabo dal 1954. Ma con Nasser viene sepolto quel giorno anche il Nasserismo. Nel Vicino Oriente si apre una nuova epoca rivoluzionaria. L’Arabismo, fino al giorno prima strumento di contestazione popolare, ha ormai perso la sua virulenza, diventando una ideologia ufficiale. La “Liberazione della Palestina occupata” fornisce ora alle nuove generazioni arabe il nuovo mezzo per contestare una società bloccata, soffocante e dispotica.

La gioventù del Cairo, di Damasco, d’Amman e di Bagdad preferisce ormai, al posto dei primi eroi dell’indipendenza contro la presenza coloniale prima turca e poi britannica, gli attivisti palestinesi, Kefiah sulla testa, Kalashnikov a tracolla e nelle mani la bandiera di un marxismo “puro e duro”. I Fedayn rappresentano la rivoluzione in marcia contro i capi di stato arabi ed il nuovo ordine che essi incarnano.

In Giordania, nel settembre 1970, Re Hussein affronta militarmente i militanti della Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che hanno creato uno stato nello stato; sarà una lotta senza quartiere, il sanguinoso “settembre nero”. I combattenti palestinesi, che hanno trovato rifugio nel Libano, dopo la loro espulsione da Amman, danno man forte agli islamo progressisti locali, dove si frammischiano maroniti, sciiti e drusi contro il fragile stato libanese multiconfessionale. In Egitto gli studenti affermano quotidianamente nelle strade il loro sostegno ai Palestinesi e spingono il Presidente Anwar el Sadat, successore di Nasser, ad affrontare Israele.

Dal canto suo, l’Occidente è convinto di aver individuato dietro i capi delle organizzazioni palestinesi Arafat, Habbash, Abu Nidal ed altri, i fantasmi di Marx e di Lenin, per il fatto che essi sono sostenuti dal blocco comunista. Per certi aspetti un errore fatale coltivato specialmente dalla Francia. La rivoluzione avrà effettivamente luogo, ma “partorirà” nel 1979 in Iran, una repubblica islamica e non certo una repubblica “popolare democratica”.

In effetti la perdita di Gerusalemme, Al Quds (La “Santa” in arabo) riveste un significato religioso considerevole per i mussulmani. Dalle origini dell’Islam, la città è uno dei luoghi santi: in effetti è prioritariamente verso di essa, prima della Mecca, che si sono rivolti i primi mussulmani nelle loro preghiere. Il suo suolo sarebbe stato percorso dal Profeta, in occasione di un suo viaggio notturno (miradj). “Una notte Muhammad – Maometto venne svegliato dall’angelo Gabriele (Gibril) ed avendo inforcato una favolosa cavalcatura, percorse in un baleno la distanza fra la Mecca e Gerusalemme. Laggiù egli recitò una preghiera. Poi, sempre accompagnato da Gabriele, egli fece una ascensione attraverso i sette cieli sino all’ultima Presenza divina; poi effettuò il cammino in senso inverso”. E’ sempre a Gerusalemme che avrà luogo, nel giorno del giudizio universale, il combattimento finale fra l’impostore apocalittico, Dajjal e le forze della fede, comandate dal Mahdi ed assistite da Gesù. Le truppe dei Credenti, finalmente vittoriose, andranno a pregare nella moschea di Gerusalemme, che diventerà da quel momento l’unico centro spirituale dell’umanità, ormai completamente convertita all’Islam.

Yaqut al Hamawi, un sapiente mussulmano morto nel 1929, affermava che la tradizione profetica recitava: “Chiunque prega a Gerusalemme è come se pregasse nel Cielo. E’ a Gerusalemme che Dio ha innalzato al Cielo Gesù, figlio di Maria, è là che Gesù riapparirà nel momento del suo ritorno. E’ a Gerusalemme che la Kaaba (3) sarà portata in corteo con tutti i pellegrini venuti apposta per essa e si dirà: Benvenuti al visitatore ed al visitato ! Tutte le moschee della terra saranno portate in processione a Gerusalemme ……  Laggiù suoneranno le trombe nel giorno della Risurrezione”.  Il carattere sacro di Gerusalemme viene ancora più amplificato durante il periodo delle Crociate. Uno storico mussulmano, contemporaneo del Saladino, Imad al Din, scriverà dopo la riconquista araba della città nel 1187: “Essa è all’origine dei messaggi profetici, dei miracoli dei santi e delle tombe dei martiri”.

In tale contesto, all’indomani della guerra dei sei giorni, numerosi mussulmani vedono nella perdita di Gerusalemme un intervento divino destinato a punire i regimi arabi miscredenti, che hanno dimenticato Dio e questo li incita a tornare con fervore verso l’Islam. Le parole di Sayd Qutb, un teorico dei Fratelli Mussulmani impiccato sotto Nasser, assumono per gli Arabi valore di profezia. “La dominazione dell’uomo occidentale nel mondo è ormai giunta alla sua fine, non tanto perché la civiltà occidentale è materialmente in fallimento o ha perduto la sua potenza economica e militare, esaurendo il suo ruolo, ma perché non possiede più al suo interno, quell’insieme di “valori” che gli hanno permesso la supremazia. ….. La rivoluzione scientifica ha assolto la sua funzione così come il Nazionalismo e le comunità limitate ad un territorio che si sono sviluppate a suo tempo. …. E’ venuto  nuovamente il momento dell’Islam”. Questa idea è quella che restituisce il morale ai vinti del 1967 e diventa un’arma contro l’Occidente, alleato di Israele. L’Islamismo (2) ha ormai iniziato i suoi passi nella sostituzione dell’arabismo.

Fino allo scoppio della Guerra dello Yom Kippur (o del Ramadam, a secondo degli storici), nell’ottobre 1973, i gruppi marxisti formano la punta di lancia dell’opposizione ai regimi dal Cairo a Bagdad. Sulla base dell’esito di questo nuovo conflitto israelo-arabo, l’Islamismo, sino a quel momento represso da Nasser, rinasce dalle sue stesse ceneri e per mezzo di altre nuove organizzazione quali Hamas (4), il braccio armato dei Fratelli Mussulmani e lo stesso Anwar el Sadat, che firmerà gli Accordi di Camp David con Israele nel 1977, sarà assassinato da un commando islamista nel 1981. Dal Golfo Persico all’Atlantico le folle trovano nell’islam wahabita, praticato in Arabia Saudita, un surrogato del marxismo. Indubbiamente nel 1973 Israele, dopo aver subito degli insuccessi iniziali nel Sinai e nel Golan, esce ancora una volta vincitore dal nuovo conflitto. Ma il vero vincitore è il Regno dell’Arabia Saudita grazie all’arma, incredibilmente efficace, del petrolio.

Per obbligare l’Occidente a fare pressioni su Israele per l’accettazione del cessate il fuoco, quando ormai lo Tsahal è ad appena 30 chilometri dal Cairo ed ad una quarantina da Damasco, Re Feysal chiude i rubinetti del petrolio e Ryad si erge in tal modo ad ultimo bastione del mondo arabo, imponendosi sulla scena internazionale.

L’opinione mussulmana vede nel petrolio un dono di Dio ed a seguito della guerra dello Yom Kippur il prezzo del barile sale del 70%. Le casse di Ryad cominciano a rigurgitare di “petrodollari”. In effetti il primo shock petrolifero e l’embargo hanno dimostrato che il Regno Saudita avrebbe giocato un ruolo sempre più rilevante. Le sue entrate da quel momento conoscono una crescita irresistibile: 949 milioni di dollari nel 1969; 2.745 milioni di dollari nel 1972; 22.574 milioni di dollari nel 1974; 25.700 nel 1975; 30.800 nel 1977.

E’ ormai dimenticato il 1818, l’anno in cui i Saud furono costretti alla fuga sotto l’incalzare delle truppe egiziane del Vicerè del Cairo, Ibrahim Pashà, così sembra ormai un ricordo lontano la “defunta e screditata” Voce degli Arabi, che diffondeva i discorsi incendiari di Nasser contro la dinastia saudita. Ora Feysal è corteggiato dai grandi del mondo, adulato dalle popolazioni arabe che vedono in lui il nuovo difensore dell’Islam. Nelle strade del Cairo, qualcuno, nel 1975, arriva persino a diffondere l’idea di una possibile riedizione, dopo 51 anni, del Califfato vacante e di poterlo conferire a Feysal, capo incontestato del mondo arabo. L’Arabia Saudita si pone al centro dell’Umma, la Comunità dei Credenti mussulmani, dalla Malesia al Senegal e dalle Repubbliche islamiche dell’Asia centrale alle periferie delle capitali europee. La Somalia, l’Etiopia dancalica, l’Eritrea, l’Irak, l’Algeria, l’Egitto, l’Afghanistan, il Pakistan, ma anche la Francia, la Germania, il Belgio e la Gran Bretagna, vengono inondate da milioni di copie del Corano o da opere, lussuosamente stampate e vendute a basso prezzo, di Ibn Tamiya, uno dei grandi pensatori degli islamisti.

Ryad non bada a spese. Somme colossali vengono riunite per finanziare questa “reislamizzazione” del mondo e per aggirare il divieto coranico del prestito ad usura (la Riba), viene creata, nel 1973, a Gedda, da parte del regime saudita, la Banca Islamica di Sviluppo. Inoltre per promuovere l’ortodossia islamica, i dirigenti dispongono, a partire dal 1969, dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, forte oggi di ben 57 stati membri. Se dal un lato questa istituzione serve a propagare soprattutto il Wahabismo, dall’altro essa concorre anche a reislamizzare l’economia e la finanza. Sotto la sua ala protettrice si è già sviluppata, dal Pakistan al Marocco, una sequela di “Banche islamiche”.

Ma il mondo mussulmano non sarà il solo ad essere toccato dalla guerra dei sei giorni. Il 7 giugno 1967 le truppe israeliane raggiungono il “Muro del Pianto”. I soldati dello Tsahal si raccolgono davanti alle vestigia del Tempio di Salomone. Essi vi pregano, piangono e cantano l’Hallel, una serie di preghiere per le grandi occasioni. Tremanti di emozione essi si “dondolano” al ritmo dei salmi, con il mitra Uzi a tracolla, davanti al generale Moshé Dayan, Ministro della Difesa che dichiara: “Questa mattina, l’esercito di difesa israeliano, ha liberato Gerusalemme … Noi siamo ritornati nei più santi dei nostri luoghi e vi siamo ritornati per non separarcene mai più”.

Questa vittoria del giugno 1967, per usare le parole di un famoso giornalista svizzero Pierre Hazan, provocherà dei profondi cambiamenti religiosi in Israele e negli Stati Uniti, dove vive la più potente comunità della Diaspora. La Guerra dei sei Giorni stimola e “legittima” il sentimento politico religioso dei nazionalisti. L’annessione di Gerusalemme, questa appropriazione “quasi carnale” della vecchia città, apre la via alla rinascita del misticismo, ad una riaffermazione dell’identità giudea, non più sotto la forma del sionismo, ma sotto quella di un nazionalismo rigido ed intransigente. La stessa vittoria viene giudicata come un fatto quasi miracoloso, come una conferma quasi divina del diritto all’esistenza di Israele. La vittoria segna soprattutto la fine di un’epoca, quella della missione dei pionieri, i fondatori di Israele, atei in maggioranza, che hanno voluto fare dello stato ebreo un crogiolo nel quale gli immigranti giudei, venuti dai quattro angoli del mondo, avrebbero dato la nascita ad un “uomo nuovo”. Essi hanno ormai compiuto la loro missione: Israele è una realtà indiscutibile e la sua sicurezza sembra ormai essere assicurata per lungo tempo.

Questo vecchio sogno della fine del 19° secolo, fortemente impregnato di ideali socialisti, i religiosi ebrei non l’hanno mai accettato. Fino al 1967, i giudei ortodossi sono in maggioranza antisionisti. Essi pensano che dopo la caduta del Secondo Tempio, la vocazione degli Ebrei è quella di formare un “popolo di preti” dispersi fra le nazioni. Essi non devono partecipare alla restaurazione d’Israele prima dell’avvento dei tempi messianici. Con la conquista della vecchia città di Gerusalemme, essi cambiano radicalmente d’opinione. Partigiani del Grande Israele, religioso o nazionalista, essi si rifiutano di restituire la Cisgiordania, l’antica Giudea e Samaria, la loro patria storica. Essi immaginano ormai un altro Israele, erede del popolo del Libro, un Israele più grande di quello della guerra del 1948 e soprattutto più credente. Essi, in definitiva, vogliono offrire agli Israeliani una nuova frontiera ed un nuovo sogno.

Il 4 luglio 1967 il rabbino (rav) Tsvi Yehuda Kook esorta i suoi allievi, pronunciando il giuramento millenario: “Se per caso ti dovessi dimenticare o Gerulasemme, che la mia mano destra si secchi !”. Poi ammonisce il Capo dello stato di Israele, Zalman Shazar, ed i suoi ministri, venuti ad ascoltarlo: “Che la mano che firmerà degli accordi di cessione della terra d’Israele sia tagliata ! …. Esiste nella Torah un divieto assoluto di rinunciare anche ad un solo pollice della nostra terra liberata”. 28 anni più tardi, il 5 novembre 1995, Ygal Amir, obbedendo ai precetti di questo rabbino estremista, assassinerà Ytzhak Rabin, il Capo del Governo israeliano, che nel 1993 ha firmato degli accordi di pace a Washingon con Yasser Arafat, il rappresentante dei Palestinesi.

Le prime colonizzazioni ebree seguono immediatamente la vittoria del 1967, sotto la spinta del rabbino Moshé Levinger e dei suoi partigiani, che occupano un albergo ad Hebron, città dove sarebbe stato sepolto Abramo. Essi vogliono con tale gesto rammentare a tutti gli Israeliani il massacro della Comunità ebrea del 1929. In seguito, sempre nella regione di Hebron, essi fondano una nuova città, Kyriat Arba. Nel 1974, dei partigiani del rabbino Kook, creano il movimento Gush Emunim, il Blocco della Fede. Altri discepoli del rav Kook si riuniscono a sud di Betlemme, a Kfar Etzion, sulla strada Gerusalemme - Hebron. Questa località rappresenta un luogo altamente simbolico: in quanto costituisce una delle più antiche colonizzazioni ebree del Yishuv (5) nella Palestina, conquistata dalla Legione Araba nel 1948 e riconquistata da Israele nel 1967. Kfar Etzion incarna, da un lato la fragilità della presenza giudea, alla mercé delle armi arabe e dall’altro la volontà di non cedere. Nello spirito dei fondatori del Gush, ma anche in quello dell’israeliano medio, Kfar Etzion non è un “bene negoziabile”. Per il Gush il concetto si allargherà poi sino a comprendere tutti i territori occupati, come lo ha ben sottolineato lo scrittore Kepel.

Questi giudei religiosi non sono peraltro un elemento isolato nella società di Israele ed anche diversi cristiani sionisti condividono il loro stesso punto di vista. Essi vedono nel ritorno del Tempio nel girone del giudaismo, l’espressione della volontà di Dio e commentano questo avvenimento alla luce delle Sacre Scritture. Questa vittoria, a loro avviso, annuncerebbe nientemeno che il trionfo finale del bene sul male. Secondo la loro visione il giugno 1967 segnerebbe il ritorno trionfale di Israele, che nella Bibbia annuncia la vittoria del Bene, il ritorno del Messia e la fine dei tempi. Essi difendono incondizionatamente Israele nel conflitto che l’oppone ai Palestinesi e condividono la stessa visione della storia con i giudei ortodossi.

Ieri, l’Arabismo ed il Sionismo dominavano largamente la scacchiera politica del Vicino Oriente. Oggi, invece, essi hanno ormai lasciato, si spera non definitivamente, il loro posto al fondamentalismo ed all’estremismo.

NOTE

(1) Nel senso moderno rappresenta un movimento di rottura con il colonialismo con l’obiettivo di riunificare la nazione araba. Il Nasserismo vi aggiunge una connotazione di socialismo;

(2) Movimento politico-religioso integralista fondato su una lettura letterale del Corano;

(3) Luogo santo della Mecca che conserva la Pietra Nera sacra. Rappresenta il cuore del mondo islamico;

(4) Acronimo di Haraqat al Muquwama al Islamica (Movimento di Resistenza Islamica). Hamas significa anche “fervore”. Questo movimento, fondato il 14 dicembre 1987, cinque giorni dopo l’inizio della 1^ Intifada, rappresenta per certi aspetti il braccio armato dei Fratelli Mussulmani;

(5) La Comunità ebrea di Palestina esistente già prima delle colonizzazioni sioniste del 19° secolo.

BIBLIOGRAFIA

Corm Georges, “Il Vicino Oriente esploso 1956-1991”, Gallimard, Parigi, 1991;

Enderlin Charles, “Gli anni perduti, Intifada e guerre nel Vicino Oriente 2001-06”, Fayard, Parigi, 2006;

Hourani Albert, “Storia dei popoli arabi”, Seuil, Parigi, 1993;

Kepel Gilles, “La Rivincità di Dio”, Seuil, Parigi, 1991;

Laurens Henry, “Il grande gioco, Oriente arabo e rivalità internazionali”, Armand Colin, 1991.

ISABELLA d’ESTE

ISABELLA d’ESTE

Una donna eccezionale nel caos delle guerre del Rinascimento

 

(Stampato su “SUBASIO” n. 3/12 del settembre 2004, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi)

Nell’Italia dei Condottieri e delle fazioni, fra le devastazioni dei mercenari di Carlo 5°, di Venezia, del Papa o del Re di Francia, svetta la figura poco conosciuta di Isabella d’Este. Una donna con una marcia in più, tormentata fra l’amore ed il potere, portatrice di una grande modernità.

Resa celebre dall’Ariosto, suo fedele amico, nell’Orlando Furioso, laddove recita “Io voglio che per l’avvenire il tuo nome / sia sinonimo di intelligenza sublime / di beltà, distinzione e cortesia, / marcato infine dal segno della perfezione … “. La vita di questa donna si confonde fra le raffinatezza del Rinascimento e gli sconvolgimenti delle numerose guerre del periodo. Mai come nel Rinascimento l’espansione e l’influenza della civiltà italiana fu così grande, ma mai la sua struttura sociale fu altrettanto minacciata dalle fondamenta. A partire dal 1494, la spedizione di Carlo 8°, Re di Francia, provoca una vera e propria rottura dell’equilibrio politico della penisola e l’Italia, divenuta campo degli appetiti e delle voglie delle grande potenze dell’epoca, rivela una grande donna di potere e di intelletto che si afferma però a danno del suo destino di sposa.

Nata a Ferrara il 18 maggio 1474, è la figlia del potente Duca Ercole d’Este (1431 – 1505) e di Eleonora d’Aragona e diverrà la sposa di Francesco Gonzaga, marchese di Mantova.(1466 – 1519) A dieci anni, bambina precoce, stupisce tutti per la sua intelligenza, la sua bellezza e la sua grazia. Dotata di una bellissima capigliatura bionda, di una carnagione splendente, essa sembra incarnare l’ideale rinascimentale della bellezza. Ma se Isabella d’Este colpisce già gli spiriti dell’epoca dalla sua più tenera età, ciò non è soltanto per il suo charme fisico ma soprattutto per i suoi doni intellettuali, eccezionali per una ragazza così giovane. Il suo amore per gli studi gli consente di recitare a memoria dei versi di Terenzio Varrone e di Virgilio. Questo amore per il sapere le resterà per tutta la vita e la sua fama le consentirà di intrattenere una fitta corrispondenza con i più famosi umanisti e sapienti della sua epoca. Questa giovanetta, dotata di straordinarie qualità, seduce tutto il suo ambiente circostante per la sua vivacità, la sua bella voce e la sua grazia. Certo questo non è il frutto del caso, ma il risultato di una educazione artistica e scientifica, che ha consentito di sviluppare le sue qualità innate. La corte estense a Ferrara era in effetti fra i cenacoli intellettuali ed artistici più prestigiosi dell’Italia del tempo, Suo padre, Ercole d’Este, è un degno discendente dei suoi famosi antenati. Niccolò d’Este (1383 – 1441) aveva accolto nella sua corte il Petrarca, Alberto (1347 – 93) è stato il fondatore della celebre Università degli Studi di Ferrara che attirava il più grandi eruditi ed umanisti d’Italia; Leonello (1407 – 50) e Borso d’Este (+ 1471) avevano commissionato la decorazione dei loro palazzi a Jacopo Bellini ed a Piero della Francesca. Pertanto a partire dalla sua più giovane età Isabella apre gli occhi su dei tesori e partecipa alle conversazioni di un Giovanni Pico della Mirandola[1] o di un Nicolò da Correggio[2]. Quello che essa riceve dal questa infanzia speciale e fortunata saprà trasmetterlo qualche anno più tardi ai suoi figli, Federico ed Ercole. Questi avranno infatti per precettore Baldassarre Castiglioni (Marcaria 1478 – 1529 Mantova), l’autore del “Cortigiano”, opera che farà il giro dell’Europa e Pietro Bembo[3], filosofo, autore del “Trattato dell’immortalità dell’anima” (1516), opera che influenzerà non poco il pensiero razionale dell’epoca. In effetti Isabella riunisce in se stessa delle qualità rare e talvolta opposte. Dai suoi studi scientifici, sotto la guida dei più grandi sapienti del periodo, all’arte del canto, dove eccelle, agli intrighi politici ed alla diplomazia, nulla resiste a questa donna d’eccezione. Si interessa di tutto con pari talento, pur non dimenticando di coltivare la sua femminilità e la sua vanità. Spende fortune in collane e stoffe lussuose. Suoi speciali agenti corrono in lungo ed in largo la città di Venezia per trovare le più belle pelli di zibellino. Quando vuole una cosa la vuole subito: manoscritti rari, gioielli, oggetti preziosi, con i quali far brillare la sua fama e magnificare la sua bellezza. Molti uomini famosi fanno dei viaggi appositamente per conoscerla, Ludovico il Moro[4] suo cognato, la considera come un anima gemella. Luigi 12°, Re di Francia, la descrive come “una bella donna che danza a meraviglia”. Tutti gli uomini del tempo la considerano come “la prima donna del mondo”.

Nonostante tutti queste seduzioni e riconoscimenti, essa riuscirà a rimanere fedele ad un solo uomo, Francesco Gonzaga, il marchese di Mantova. Fidanzati fin dalla loro più tenera infanzia, secondo i costumi dell’epoca, Francesco le faceva visita ogni estate, giocando con lei e incantato da questa bella giovane le inviava persino dei poemi. Ma questo stato di incantesimo non durerà che qualche anno. Con il passare del tempo questo marito, tanto amato, diviene infedele e comincerà a collezionare un notevole numero di amanti e, naturalmente, un adeguato numero di figli adulteri. Isabella non dice nulla, non reagisce. Fa finta di ignorare le tresche di suo marito perché ha scoperto di avere una testa politica, delle idee politiche e soprattutto una volontà politica di potere. La dolce ragazza che era, per effetto anche del suo menage familiare, sparisce a poco a poco per far posto ad una donna di forte volontà, che partecipa con decisione a tutti i conflitti politici del tempo. Su questo terreno essa sarà molte volte in disaccordo con il marito, cosa che di certo non favorisce in lui un ritorno di fiamma verso la moglie e che lo spinge a preferire vieppiù le braccia dell’appassionata e dolce sua cognata Lucrezia Borgia[5]. Francesco, uomo di guerra fra i migliori del suo tempo, rinfaccia alla moglie il suo autoritarismo. Attribuisce alla moglie delle colpe nell’educazione del loro figlio Federico, al quale “imbroglia lo spirito” con dei versi latini, piuttosto che farne un cavaliere rotto al mestiere delle armi. Uomo dal temperamento bollente, non risparmia alla moglie, troppo virile, ne insulti ne ingiurie. Il problema che più lo turba e quello di pensare che la moglie lo voglia soppiantare nel governo di Mantova. Bisogna pur dire che Isabella ha cominciato a prendere gusto nella politica, dopo che fu costretta a gestire la Reggenza del marchesato durante le campagne militari del marito e la prigionia di questi da parte dei Veneziani nel 1509. Di fatto quando il marito rientra nel marchesato la donna non si adatta a cedere i suoi poteri, tanto più che si sente più idonea alla condotta del governo rispetto al marito. Di fatto se la bontà, la grazia, la bellezza e la cultura di Isabella avevano sedotto il marito all’inizio del matrimonio, dopo qualche anno poche di queste qualità sopravvivono nella sposa. Le numerose gravidanze hanno col tempo appesantito la sua linea. Il marito non vede più nella moglie che una donna autoritaria che si immischia in permanenza nella politica e che contesta le sue decisioni. Questi conflitti dureranno sino alla morte del marito il 29 marzo 1519. Sul suo letto di morte Francesco Gonzaga saprà comunque riconoscere le notevoli competenze di Isabella. Gli affiderà il governo di Mantova sino alla maggiore età del loro figlio Federico (1500 – 1540). L’elogio, purtroppo tardivo, che le fa il marito la tocca profondamente. Quindi anche se la politica è stata una continua fonte di discordie familiari, per Isabella rappresenta una fonte di soddisfazioni ed i suoi successi furono numerosi e di prestigio. In occasione del sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi nel 1527, Isabella, schierata dalla parte degli imperiali, si trova riparata nel palazzo Colonna dove vi protegge 2000 romani. La sua posizione politica a favore dell’impero non le impedirà poi di intrigare con il Papa per la nomina a Cardinale per il figlio Ercole Gonzaga[6] in cambio di 4 mila ducati. Papa Clemente 7° de’ Medici, a corto di denaro e non in condizione di pagare la truppa, non trova altra soluzione che accettare. Ma il talento politico di Isabella raggiunge il suo apice quando l’Imperatore Carlo 5° decide di innalzare a Ducato il Marchesato di Mantova, in riconoscimento dei meriti acquisiti nella sua opera a favore dell’impero. Grazie infatti alle decisioni di Isabella, Mantova si riscatta dell’adesione all’ultima Lega. All’incoronazione dell’Imperatore del 24 febbraio 1530 a Bologna, Isabella é fra i presenti. Ha 56 anni ed il suo successo politico la rende radiosa. Essa è circondata, come sempre, da una coorte di giovani e belle amazzoni, che essa utilizza alla stessa maniera che più tardi utilizzerà Caterina de’ Medici. I ricevimenti che essa dà al Palazzo Monzala sono fra i più brillanti e ricercati. I gentiluomini si fanno una lotta spietata per esservi invitati ed arrivano persino a duellare per l’amore di una delle sue dame d’onore.

Il 5 ottobre 1531 suo figlio, Federico Gonzaga[7], sposa Margherita Paleologo (1510 - 1566)[8] ed Isabella sente che è arrivato il momento di ritirarsi dagli affari pubblici a favore del figlio. Da quel momento essa si consacra all’abbellimento dei giardini e ad amministrare con autorità il suo piccolo Principato di Solarolo[9], posto alle frontiere con la Toscana.

I suoi ultimi anni li passa dedicati ai viaggi e ad occuparsi dei suoi cari ed in particolare di sua figlia Eleonora Gonzaga, (1494 – 1570)[10] immortalata dal Tiziano, e per molto tempo negletta. Isabella si spegne il 13 febbraio 1539, lasciando il ricordo di una donna eccezionale che in tutta la sua vita ha cercato di eccellere in tutto quello che ha fatto. Coltivare la bellezza intorno a sé, proteggere gli artisti, abbellire di grandi opere d’arte le sue collezioni, influenzare la vita politica del tempo. Il suo solo insuccesso è stato quello di non aver capito suo marito e di non essere stata compresa da questi. Essa non fu la sua dama ed egli non fu il suo cavaliere così come aveva sognato e sperato che fosse nella sua infanzia. Per tutti questi aspetti Isabella d’Este è una donna estremamente interessante ed attuale ed annuncia, con la sua vita, le contraddizioni della donna moderna davanti alla non facile scelta fra l’amore e l’azione.

 

[1] Concordia 1463 - Firenze 1494, dotto umanista ed enciclopedico, signore di Mirandola e Concordia

[2] Niccolo Postumo FE 1450 – 1508; imparentato con gli Este fu al loro servizio; suocero di Bartolomeo Colleoni.

[3] Ve 1470 - Roma 1547, Cardinale, Vescovo di Gubbio e di Bergamo; figura cardine del rinascimento

[4] Vigevano 1452 - Loches 1508. Signore di Milano morto in esilio in Francia. Marito di Beatrice d’Este

[5] Figlia del Cardinale Rodrigo Borgia e di Vannozza Cattanei (1480 - 1519); sposa 1898 il Duca Alfonso d’Este

[6] Mantova 1505 - Trento 1563, Cardinale, Vescovo di Trento, dove si indisse il famoso Concilio

[7] 1° Duca di Mantova e  nel 1533 Marchese del Monferrato

[8] Figlia di Giangiorgio Marchese del Monferrato (1480 - 1533) e di Anna Alençon Nevers

[9] Feudo dei Manfredi di Faenza in provincia di Ravenna, dato in pegno nel 1514 ai Gonzaga per 60 anni. Dal 1529 al 1539 viene governato direttamente da Isabella Este Gonzaga

[10] Moglie di Francesco Maria della Rovere, Duca d’Urbino. Ispiratrice della Venere d’Urbino

L’EUROPA di YALTA

L’EUROPA di YALTA

 

(Stampato su “SUBASIO” n. 4/2005, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi)

 

Proprio a Yalta nel febbraio 1945, Roosevelt e Stalin decidono per lungo tempo la sorte degli Europei.

 

Sin dal 1941 fino alla conferenza di Yalta (4 - 11 febbraio 1945), l’apparente unità dei tre Grandi contro la Germania maschera, in effetti, una effettiva divergenza di obiettivi geopolitici ed ideologici.

Gli Inglesi si aspettano dalla imminente vittoria la possibilità di mantenere il loro impero (ormai ribattezzato Commonwealth), di ristabilire i fondamenti della loro economia mondiale (specialmente la lira sterlina), di conservare la loro influenza strategica nel Mediterraneo orientale ed il loro protettorato sul Medio Oriente, che copre l’asse imperiale verso l’Asia ed assicura la supremazia sulle fonti di petrolio. E’ questa una visione geopolitica classica, fondata sul mantenimento di aree o blocchi di influenza esclusiva.

Gli Americani, invece, perseguono un obiettivo decisamente più ideologico. Roosevelt, sulla linea del mondialismo wilsoniano del 1918, strappa a Churchill, nel 1941 sull’isola di Terranova, l’accordo sulla Carta dell’Atlantico, che pone le basi di una mondializzazione democratica e liberale: un mondo senza imperi coloniali (diritto all’autodeterminazione dei popoli), governato da una organizzazione internazionale di sicurezza (ONU) ed una organizzazione monetaria internazionale (FMI, creato dagli Accordi di Bretton Woods del 1944). Gli Stati Uniti non si battono solamente per vincere la Germania, essi vogliono edificare sulle rovine di quest’ultima una specie di governo mondiale in grado di dirigere un mondo economicamente aperto e senza blocchi di potenza. Essi si sentono pronti ad assumere la direzione di questo movimento di mondializzazione a fianco dei Sovietici, in seno all’ONU. La loro potenza economica (la metà della produzione mondiale), militare e presto anche nucleare, coniugata con la loro fiducia e convinzione di incarnare un modello politico di portata universale, fanno loro percepire il comunismo sovietico come un sistema in via di democratizzazione e quindi integrabile nel grande mercato mondiale.

Gli scopi della guerra dei Sovietici sono purtroppo molto differenti da quelli degli Americani.  Stalin è in effetti in guerra contro l’insieme del mondo capitalista, del quale, a suo giudizio, fanno parte, sia la Germania, sia gli Alleati dell’ovest. Dal 1933 e fino al patto germano - sovietico del 1939, la sua politica non ha mai cessato di impedire la formazione di una coalizione contro gli stati proletari sotto la guida di Hitler. Lo scopo del Patto con la Germania era invece quello di incitare Berlino ad eseguire un programma ed una politica pan germanica, in modo da provocare una guerra fra le potenza capitaliste. Dopo il giugno 1941, la nuova alleanza di Stalin con Londra e Washington (ed il conseguente cambiamento di politica dei partiti comunisti europei) non è altro che un atto tattico, opportunista e strumentale nel contesto della strategia politica perseguita. Tale alleanza va pertanto inserita nel contesto di quel movimento dialettico verso la rivoluzione comunista mondiale e dello sfruttamento di quello che il Comitato Centrale del PCUS aveva definito nel 1925 come “Le contraddizioni del Capitalismo”.

L’espansione ideologica del comunismo, a partire dallo stato sovietico, si accompagna ad una strategia geopolitica che ha per scopo il consolidamento degli obiettivi territoriali della Russia sovietica. Nel 1939 e nel 1940 Stalin si era inteso con Hitler per eliminare, o meglio fare a pezzi, la Polonia, la Finlandia, i Paesi Baltici e la Bessarabia. A Yalta Stalin si pone logicamente come obiettivo di ricostituire le frontiere della Russia del 1941, cioè quelle prima del nuovo “Drang nach Osten” tedesco. Allo stesso tempo l’URSS vede in prospettiva la possibilità di raggiungere gli Stretti e di estendersi in direzione della Turchia e dell’Iran sino al Golfo Persico, per sfidarvi la supremazia anglosassone sul petrolio mediorientale.

Ma l’obiettivo geopolitico primario di Stalin alla vigilia della Conferenza, a prescindere da quanto sopra, è l’eliminazione pura e semplice della potenza tedesca dallo scacchiere europeo e di rendere allo stesso tempo la Russia la principale potenza europea. Per eliminare al Germania per Mosca occorre una capitolazione e non un armistizio. Stalin teme che si possa riprodurre in Germania la stessa situazione italiana del 1943. All’inizio del 1945 e quindi alla vigilia della Conferenza di Yalta, dei tre Grandi, l’URSS sin trova nelle migliori condizioni per conseguire i propri obiettivi.

In primo luogo perché a differenza degli Stati Uniti ed in minor misura della Gran Bretagna, che non si fida di Mosca, i dirigenti di Mosca vedono già al di là della guerra con la Germania, perché essi sono, dalla stessa fondazione dell’URSS, in guerra contro tutte le potenze non comuniste. Al contrario nel 1945, malgrado la caduta del Reich tedesco, Inglesi e Francesi rimangono dominati dalla paura della Germania; come nel 1919 essi temono in un possibile rapido recupero e nella volontà di rivincita dopo la disfatta. Bisognerà attendere molto tempo perché gli Occidentali, agli inizi del 1947 per gli Americani e solamente il 1948 per i Britannici ed i Francesi, affinché il problema tedesco venga sostituito con quello dell’URSS; ed occorreranno ancora due anni, sino alla guerra di Corea, nel 1950, affinché gli Occidentali abbandonino definitivamente la speranza di dirigere il mondo di concerto con i Sovietici.

Il secondo vantaggio sovietico a Yalta, oltre al fatto che nella loro testa sono “già in guerra con l’Occidente”, è rappresentato della situazione militare del momento. All’inizio del mese di febbraio 1945, l’Armata Rossa si trova a soli 80 chilometri da Berlino, mentre le armate alleate, ritardate dai Tedeschi nelle Ardenne, non raggiungeranno il Reno che alla metà del mese di marzo, ben oltre la fine della Conferenza. L’URSS ha operato dei profondi rimaneggiamenti territoriali che gli danno la possibilità di avere frontiere dirette con l’Ungheria e la Cecoslovacchia. L’accesso diretto all’Ungheria viene ottenuto con l’annessione dell’Ukraina subcarpatica, appartenente prima alla Cecoslovacchia e l’accesso alla frontiera cecoslovacca viene ottenuto con l’annessione della Galizia polacca (con l’assenso di USA ed Inghilterra nella Conferenza di Teheran del 1943). Successivamente, fra il settembre 1944 (Finlandia) ed il gennaio 1945 (Ungheria), Stalin conclude una serie di armistizi con i vecchi alleati della Germania, approfittando di questa nuova situazione per rinforzare ovunque il ruolo delle forze comuniste locali. Alcuni di questi armistizi si sono già trasformati in alleanza diplomatica, come il patto ceco - sovietico del dicembre 1943.

Il terzo vantaggio sovietico, alla vigilia delle discussioni, riguarda gli obiettivi prioritari di Mosca (la comunistizzazione dell’Europa e la spartizione della Germania), mentre gli Stati Uniti hanno come priorità l’accettazione dell’ONU da parte dei Sovietici e la loro entrata in guerra contro il Giappone. In queste condizioni l’obiettivo inglese di rimettere al potere in Polonia il governo legale in esilio a Londra e, più in generale, di assicurare l’indizione di libere elezioni in Europa centrale ed orientale, appare decisamente secondario a Roosevelt, tanto più che questi non ha alcuna intenzione di aiutare il suo alleato inglese a ricostituire la sua sfera d’influenza ante 1940. A Washington si diffida dell’imperialismo inglese ed esiste una reale convergenza sovietico americana a dare scacco a qualsiasi tentativo di polo geopolitico solido in Europa.

Infine il quarto vantaggio di Mosca su Washington: la rete dei partiti comunisti nell’Europa dell’Ovest. I partiti comunisti agli ordini di Mosca, fanno ormai parte del nuovo panorama politico in Francia ed in Italia e si sono rafforzati dappertutto nell’Europa occidentale, ad eccezione della Germania, dove milioni di soldati che hanno combattuto direttamente contro l’URSS hanno potuto aprire gli occhi sul mito della “Patria dei Lavoratori”. In Francia, in Italia o in Grecia, i partiti comunisti vengono imbrigliati da Mosca in modo da non rischiare l’insuccesso della comunistizzazione della periferia sovietica, considerata come prioritaria nella progressione della rivoluzione mondiale. Al peso assunto dai partiti politici sottomessi al volere di Mosca si aggiunge la politica della Francia. Concludendo con Stalin nel dicembre 1944 un patto franco -sovietico contro Berlino (ma indirettamente contro Londra e Washington), il generale De Gaulle spera di ottenere il sostegno di Mosca alla sua intenzione di strappare, al Reich vinto, la Ruhr, la Renania e la Sarre. In quest’ottica Parigi, accetta di sacrificare preliminarmente il governo polacco in esilio a vantaggio del Comitato di Lublino, controllato dai Sovietici. Speranza purtroppo vana perché Stalin, ancora convinto di portare tutta la Germania nel campo comunista, non è disponibile a fare delle concessioni sulle frontiere tedesche all’ovest, tanto più che a partire dalla sconfitta del 1940 egli non tiene la Francia in gran conto.

A Yalta i tre Grandi si mettono d’accordo principalmente sui fatti connessi con la convergenza sovietico - americana. Rassicurato per l’avvenire dell’ONU e per l’entrata in guerra sovietica contro il Giappone, Roosevelt frena il braccio di Churchill sull’Europa. La Polonia viene abbandonata al Comitato di Lublino con l’inevitabile comunistizzazione del paese. Il principio della spartizione della Germania in zone di occupazione viene accettato, senza un piano preciso di smembramento (1), proprio perché Stalin spera, grazie alla spinta dell’Armata Rossa, di prendersi quasi tutto. Viene stabilita anche una zona di occupazione francese in Germania con l’appoggio di Churchill che teme, in caso di ritiro americano, di ritrovarsi da solo davanti ai Sovietici. L’epurazione etnica (la moderna pulizia etnica di tipo balcanico) dei Tedeschi dell’Est viene programmata attraverso lo scivolamento delle frontiere tedesche dell’est fino al fiume Neisse occidentale (gli occidentali desideravano fermare il reflusso sulla Neisse orientale). Roosevelt e Churchill riescono nondimeno a strappare una dichiarazione sull’Europa liberata, per la quale è prevista l’organizzazione di elezioni democratiche in Europa centrale ed orientale e dalla quali verranno fuori ben presto le … “democrazie popolari” !!!

Alla fine della Conferenza di Yalta il nuovo progetto dell’Europa appare chiaramente definito. Esso è dominato dall’URSS, nuova superpotenza europea ed eurasiatica (2) al posto della Germania, con a disposizione una rete solida di alleati, programmati per diventare, a breve, comunisti. L’Europa Occidentale, privata della Germania, è inevitabilmente condannata alla dipendenza degli Stati Uniti. Dalla Conferenza di Teheran del 1943 Charles Bohlen, un diplomatico americano interprete di Roosevelt, aveva predetto le conseguenze dell’eliminazione della Germania dallo scacchiere delle potenze europee, scrivendo in tal modo all’ambasciatore USA a Mosca Averell Harriman: “La Germania sarà e rimarrà smembrata. Gli stati dell’Europa orientale, centrale e meridionale non potranno federarsi ed associarsi. la Francia perderà le sue colonie e le sue basi e non avrà la possibilità di mantenere un sistema militare degno di questo nome…… Il risultato finale sarà che l’URSS rimarrà la sola potenza militare e politica sul continente europeo. Il resto dell’Europa si vedrà inevitabilmente ridotto all’impotenza politica e militare (3)”.

Poco meno di due mesi dopo Yalta, il generale Eisenhower, comandante in capo degli alleati occidentali, informa Stalin, che invece di marciare su Berlino, prenderà la direzione della Baviera. Churchill non riuscirà a modificare questa decisione e nemmeno ad ottenere il fatto che le armate si dirigano almeno su Praga, dove era appena scoppiata una insurrezione non comunista contro i Tedeschi. Il 1° maggio 1945 Berlino cade in mano ai Sovietici e l’8 maggio seguente l’Armata Rossa giunge per prima anche a Praga. Ma il sacrificio della potenza tedesca, l’indebolimento e lo sfaldamento di quelle francese ed inglese e dei loro rispettivi blocchi di influenza, che rappresentano un ostacolo ed un condizionamento all’era della mondializzazione, vale bene per l’America il contemporaneo sacrificio delle tre capitali storiche dell’Europa centrale (Varsavia, Berlino e Praga), tanto più che Roosevelt pensa ancora che Stalin si sia ormai convertito alla democrazia.

In conclusione, nel febbraio di 60 anni fà, i rappresentanti delle Grandi Potenze hanno stabilito le linee guida dell’assetto futuro dell’Europa e del mondo del dopo guerra. Nella sostanza con l’accordo di Yalta viene decretata la divisione della Germania, la fine della grandi potenze europee (Inghilterra e Francia), la nascita dell’ONU, la consacrazione dell’URSS a grande potenza eurasiatica, lo spostamento oltre Atlantico del centro del potere mondiale ed indirettamente la soggezione al regime comunista di Mosca, in un cinquantennale servaggio alla “dittatura democratica del proletariato”, di numerosi paesi dell’est europeo, portatori di grandi tradizioni storiche e di democrazia.

La caduta del muro di Berlino del 1989, la riunificazione tedesca, l’implosione del sistema comunista del 1991, l’entrata nel 1995 dell’Austria e della Finlandia nell’Unione Europea (nazioni tradizionalmente “congelate” in una posizione di neutralità fra i due blocchi), ma soprattutto l’ingresso nell’Unione, il 1° maggio 2004, di paesi dell’est europeo, appartenenti all’ex blocco comunista (stati baltici, Polonia, Cechia, Slovacchia ed Ungheria) segnano, per l’Europa, il definitivo tramonto delle logiche e degli equilibri i potere nati a Yalta.

 (1) Le zone di occupazione e lo Statuto di Berlino verranno definiti dalla Conferenza di Potsdam (17 luglio - 2 agosto 1945), che completa e precisa le decisioni di Yalta.

(2) In cambio della sua entrata in guerra con il Giappone l’URSS ottiene uno sbocco sulle isole Kurili ed il sud dell’isola di Sakhalin, come Port Arthur in Cina e le ferrovie della Manciuria, fatto che ristabilisce la situazione della Russia zarista prima del 1905

(3) Tratto dal Libro di Jean Laloy, “Yalta hier, aujourd’houi, demain”, Robert Laffont, 1988, Parigi

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