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IACOPI DISCENDENZE E STORIA

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La guerra di secessione: due nazioni contrapposte

LA GUERRA DI SECESSIONE: DUE NAZIONI CONTRAPPOSTE

(Stampato su “SUBASIO” n. 3/14 del settembre 2006, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi)

Le vere ragioni del conflitto, oltre l’argomento passionale dello schiavismo, sono di ordine storico, economico e culturale. In sintesi si tratta di due mondi contrapposti.

“Non ci sono al mondo due nazioni, né ci sono mai state nel passato due che siano state separate in una maniera così netta ed ostile che le nostre …  Né lo furono Cartagine, né Roma, né la Francia e l’Inghilterra in alcun momento … “.  In questi termini si esprimeva nel 1847 James H. Hammond, Governatore della Carolina del Sud, appena quindici anni prima della guerra di Secessione.

Il conflitto ha avuto come causa immediata l’elezione di Lincoln a Presidente dell’Unione, considerata come una minaccia per la sopravvivenza del Sud. Ma lo scontro armato era soprattutto la conseguenza di una rivalità molto più profonda, la cui origine risale alla formazione delle due società, diventate col tempo antagoniste. E’ ormai un luogo comune affermare che il Sud, dominato da una aristocrazia di piantatori, possedeva una economia essenzialmente agricola e che il Nord basava la sua forza su una economia industriale e finanziaria, favorita dal protezionismo. Ma al di là di queste differenze economiche, che peseranno significativamente sulla futura Guerra di Secessione e soprattutto al di là del problema della schiavitù, che sarà il pretesto passionale del conflitto, il Sud ed il Nord avevano sviluppato due modi di vita contrapposti che traevano le loro origini nell’Inghilterra del 17° secolo.

Il capitano John Smith sbarca in effetti nel nuovo mondo il 13 maggio 1607 con 103 compagni nella baia Chesapeake. Questi, fornito di disposizioni della Compagnia di Londra, edifica sul luogo un forte che chiama Jamestown, in onore del monarca inglese Giacomo 1° Stuart. Con questo atto viene fondata la prima colonia anglosassone d’America, ben tredici anni prima dell’arrivo dei “Padri Pellegrini” del “Mayflowers”. Questi ultimi, infatti, dopo essere stati deviati da una tempesta, approdano in effetti più a nord sulla costa fredda di Capo Cod.

Il puro caso ha determinato in tal modo lo sviluppo di due diverse colonie, separate da una vera frontiera climatica e dalla frontiera di due diverse culture.

Il clima ed il suolo della zona nord, marcati dalla corrente fredda del Labrador, offrono agli immigranti appena lo stretto necessario per la sopravvivenza delle loro famiglie. Questo sarà il fattore per cui, al momento opportuno, essi saranno tentati dalla allettante prospettiva del commercio e dell’industria. Inversamente, i piantatori della calde colonie meridionali potranno dedicarsi alle colture esotiche intensive, tabacco, riso, canna da zucchero e cotone, che modelleranno la loro esistenza.

A questa dicotomia geografica si aggiunge una netta differenza di popolamento. Contrariamente ai puritani fanatici del Mayflowers, che sono venuti a fondare in America La “Nuova Sion” dei loro sogni, i coloni della Virginia sono decisamente molto meno sospinti da utopie religiose e politiche. Essi sono venuti a fare fortuna ed una vita più libera di quella di una Inghilterra sovrappopolata.

La coltura intensiva del tabacco ed i suoi fruttuosi ricavi danno ampia soddisfazione alle loro aspirazioni, anche se la sua conduzione esige una mano d’opera numerosa. Purtroppo gli Indiani si rifiutano di lavorare la terra ed, anche se ridotti in schiavitù, essi preferiscono farsi morire piuttosto che lavorare nei campi. La soluzione, anche se scandalosa al nostro giudizio moderno, ma perfettamente normale all’epoca, viene trovata nel 1629. In quell’anno il Segretario dell’Assemblea della Virginia nota sul giornale della Colonia “un bastimento olandese ci ha consegnato venti neri d’Africa”, sancendo in tal modo, con l’arrivo dei primi schiavi in America, l’inizio di una storia di cui gli USA non hanno ancora finito di pagarne le funeste conseguenze.

L’importazione del “Legno d’ebano” (Legno d’ebano (nero) sinonimo di “Tratta degli Schiavi”), che farà la fortuna del porto francese di Nantes, crescerà lentamente fino al 18° secolo ed avrà la sua esplosione quando gli armatori del Nord Europa, valutatane la lucrosità del commercio, si dedicheranno a tempo pieno a questo odioso traffico. Il denaro servirà ampiamente a soffocare tutti gli scrupoli !

I negrieri puritani alzeranno i loro occhi al cielo, dimenticando i loro principi di uguaglianza e le loro convinzioni nel carattere redentore del libero lavoro. Il sillogismo calvinista ha una risposta per tutto: Il Signore benedice la ricchezza. La ”Tratta degli schiavi” è il mezzo più rapido per assicurarsi la ricchezza. Quindi il Signore benedice anche la “Tratta” !!!

Nel 1770 il porto di Rhode Island conta già 170 battelli negrieri. Sono dunque i porti della Nuova Inghilterra (New England)[1] che assicurano di gran lunga la maggior parte di questo traffico, con in testa quelli di Providence, New Bedford e Newport, seguiti da quelli di New York e Boston.

Sono pertanto due culture, due economie e due società che al Nord ed al Sud si sviluppano completamente all’opposto. Gli emigranti del New England vivono praticamente in autarchia, mentre per contro i piantatori della Virginia non possono vivere senza operare degli scambi. Essi vendono le loro balle di tabacco alle navi di Londra, poi a quelle di New York, ottenendone in cambio viveri, mobili ed oggetti manifatturieri. Lo sfruttamento del suolo è la loro unica risorsa e fonte di profitto. In tal modo si consolida nel Sud una cultura aristocratica ed agraria in opposizione al modo di vita egualitario ed individualista del Nord.

“Gli Yankee[2] ed i Virginiani - scrive Michel Chevalier nel 1826 sulla “Revue des deux Mondes” – sono esseri fortemente dissimili. Ma sono gli stessi uomini che si sono tagliati la gola in Inghilterra sotto il nome di Cavalieri e Teste Rotonde. I America, dove non esiste un potere moderatore, avrebbero continuato a scannarsi come un dì nella madre patria, se la Provvidenza non li avesse posti, uno al Nord e l’altro al Sud”.

Alexis de Tocqueville[3], studiando le due società una trentina di anni prima della guerra di Secessione, ci ha descritto anch’egli due tipi umani opposti: “L’Americano del Sud è più spontaneo, più spirituale, più aperto, più generoso, più intellettuale e più brillante. L’Americano del Nord è più attivo, più razionale e più abile. Quello del Sud ha i gusti, i pregiudizi, le debolezze e la grandezza di tutte le aristocrazie. L’altro evidenzia le qualità ed i difetti che caratterizzano la classe media.”

All’alba del 19° secolo, il formidabile sviluppo della coltura del cotone, dovuto all’invenzione della sgranatrice, apporta un benefico colpo di frusta a tutta l’economia del Sud. Vengono creati dei vasti sistemi di trasporto fluviale per smaltire la produzione di cotone fino ai porti di imbarco, in direzione delle industrie tessili in piena esplosione in Inghilterra ed in Europa.

Appaiono nel Sud intorno al 1830 le prime ferrovie che estendono la loro rete di rotaie molto più rapidamente che al Nord. Sembra che il Sud agricolo sia lanciato sulla via della industrializzazione. Molte audaci imprenditori si lanciano nell’avventura, ma il mondo affaristico industriale del Nord non tarda a reagire. L’industrializzazione del Sud rappresenta un pericolo per l’economia del Nord, che utilizza il Sud come una colonia. Di fatto, il Nord acquista i prodotti agricoli e materie prime in cambio di prodotti manifatturieri, ricavandone nel passaggio sostanziali benefici finanziari, connessi anche agli alti tassi di interesse praticati. Per spezzare la minaccia gli industriali del Nord praticano un “dumping” destinato a rompere la nascente industria del Sud, tanto che a partire dal 1850 si registrano una imponente serie di fallimenti.

L’insuccesso dell’industrializzazione nel Sud viene duramente vissuta dalle popolazioni, che prendono piena coscienza della loro subordinazione economica al Nord, tanto che Barnwell Rehtt potrà pubblicamente affermare nel Monitore di Charleston che “Il Sud è per il Nord la più bella colonia che qualsiasi Paese abbia mai posseduto”.

Grazie al cotone, gli Stati del Sud forniscono i tre quarti delle esportazioni dell’Unione. Come sembrerebbe logico, essi avrebbero dovuto ricavarne un adeguata ricchezza, ma è in effetti il Nord che ne trae i migliori benefici, perché ha il controllo delle importazioni e delle esportazioni. Le imprese del Nord acquistano il cotone dai piantatori per rivenderlo in Inghilterra ed in Europa. Sono i banchieri del Nord che scontano le tratte ricevute in pagamento. Sono gli intermediari d’affari del Nord che forniscono le anticipazioni di denaro a dei tassi molto elevati. Sono gli armatori del Nord che trasportano il cotone e portano indietro altre mercanzie ed infine è attraverso New York che arrivano tutte le mercanzie europee destinate al Sud.

Le tariffe doganali che impone il Nord per proteggere le sue manifatture contro la concorrenza europea sono a suo esclusivo vantaggio e costano per contro solo al Sud. Per molti sudisti ormai è evidente che lo stato di soggezione in cui sono caduti non è altro che il frutto di un complotto ordito dai rapaci affaristi del Nord. Cominciano ad essere in tanti che iniziano a raccomandare una ritirata dall’Unione. Questo sogno di secessione è sostenuto da un rancore, reso più forte dal fatto che i Sudisti sono convinti che la loro società sia decisamente superiore a quella del Nord e che sia contemporaneamente minacciata nella sua sopravvivenza.

Sminuito economicamente rispetto al Nord, il Sud lo diviene anche politicamente: i nuovi immigranti venuti dall’Europa affluiscono principalmente verso il Nord verso i territori vergini del Nord est. Essi evitano di dirigersi verso il Sud dove temono di subire degli svantaggi a fronte della concorrenza schiavista. La rapida soppressione della schiavitù negli stati del Nord non è stato in effetti un azione a sfondo morale, ma la conseguenza inevitabile dello spirito di libera impresa e di concorrenza che prevaleva nella società. La pre rivoluzione galoppante alimentava lo spirito del “pioniere” grazie all’arrivo in massa di una mano d’opera immigrata dall’Europa. Questa, desiderosa di uscire dalla sua miseria di origine anche a prezzo di duri sacrifici, consentiva di alimentare, a basso costo, il nascente sistema di produzione, ben distante se non addirittura incompatibile con la visione agraria e servile degli stati produttori di cotone. In definitiva questa tendenza della corrente migratoria determina per la prima volta, nel censimento del 1840, che la popolazione bianca del sud risulti meno numerosa di quella del Nord.

Il Sud sente sfuggirgli la posizione dominante che aveva sempre avuto nei governi dell’Unione dal momento dell’Indipendenza. Fino alla metà del 19° secolo, dopo George Washington e Thomas Jefferson, anch’essi della Virginia e proprietari di schiavi, la maggior parte dei Presidenti degli Stati Uniti sono stati dei gentlemen del Sud. Ma ormai la superiorità intellettuale che gli viene universalmente riconosciuta, non può più compensare la sua inferiorità numerica. I Sudisti sono già una minoranza, di giorno in giorno più debole. Se la popolazione è passata dai 9 milioni nel 1820 a più di 31 milioni di abitanti nel 1860, questo aumento, frutto dell’immigrazione, è andato essenzialmente a favore del Nord. Nel 1860 gli stati “Yankees” contano già 23 milioni di abitanti contro i soli 9 milioni del Sud, dei quali ben 3, 5 milioni sono degli schiavi. In definitiva sui 240 rappresentanti attribuiti per censimento del 1860, il Sud non ne avrà che 65, poco più della minoranza di bloccaggio per gli emendamenti costituzionali. Anche al Senato l’equilibrio è stato definitivamente rotto.

Ed è proprio in questo memento critico che il problema della “schiavitù” diviene un affare politico maggiore e trasforma il conflitto tra le due società in una vera e propria guerra di religione. Nel giro di qualche anno i predicatori nordisti trasformano il problema dell’abolizionismo in una efficace macchina da guerra contro il Sud. Le folle del Nord sono surriscaldate da discorsi infuocati, pronunciati nel nome della morale e della compassione, presentando la società del Sud come un mostruoso bagno penale.

Allorché gli agitatori Yankee denunciano la schiavitù con tutta la carica emotiva che questa parola può evocare, i Sudisti capiscono che la posta in gioco è ormai il loro stile di vita. In realtà una grande maggioranza del Sud non è assolutamente coinvolta nel fenomeno della schiavismo. Su circa 1, 800 mila famiglie, solo 350 mila (una su cinque) sono proprietarie di schiavi. Pertanto se anche esse si ribellano e sono solidali è dipeso dal fatto che sono in totale buona fede. Alcuni pensano persino, anche con sincerità, che il lavoro servile, lungi dall’essere una orribile sopravvivenza, costituisce un progresso rispetto al lavoro dei salariati dell’epoca.[4] Contrariamente ai lavoratori cosiddetti liberi delle fabbriche, cantieri e miniere, quelli delle piantagioni non hanno il rischio della disoccupazione. Essi non vengono abbandonati in caso di malattia o di vecchiaia: essi sono certi di avere sempre un tetto, da mangiare e dei vestiti. In più le obbligazioni della servitù si inscrivono in una tradizione consolidata e non pesano in alcun modo a quelli che la subiscono senza pensarci. La piantagione è in effetti una comunità patriarcale che genera dei legami affettivi fra i suoi membri. A fronte di questi vantaggi reali, che valore può avere la libertà formale nella dura società del Nord ? Bassi salari, lunghe giornate di lavoro senza riposo, condizioni di vita miserabili, totale insicurezza, condizioni di lavoro pericolose e repressione padronale[5].

Nessuno nutre dubbi sul fatto che la virtuosa indignazione degli abolizionisti, derivi molto meno dall’amore per i “Neri” che dall’odio per il Sud. Un viaggiatore scozzese Charles McKay, che ha visitato il Nord ed il Sud poco prima del conflitto, ha lasciato delle interessanti e piccati impressioni sul comportamento delle due società di fronte ai “Neri”. “Nel Sud il proprietario di schiavi non sembra porre la minima obiezione a trovarsi accanto ad un nero. Per contro gli uomini del Nord, che parlano tanto di libertà e di uguaglianza politica, storcono sdegnosamente le labbra alla minima possibilità di un contatto con un africano. Se gli Stati del Nord ed i loro abitanti testimoniassero la metà o un quarto della benevolenza sociale dimostrata nel Sud, il problema dello schiavismo ne sarebbe grandemente semplificato. Ma tenuto conto che gli abitanti del Nord parlano dei diritti politici del Nero, pur opprimendolo o abbassandolo socialmente, i loro discorsi antischiavisti emanano un tanfo d’ipocrisia e di falsità”.

Verso il 1860 la grande maggioranza dei Sudisti esprime il desiderio di trovare una soluzione che possa mettere fine al fenomeno della schiavitù, senza creare delle irrimediabili devastazioni sociali. I Sudisti del 1860 temono che la messa in libera circolazione di una tale moltitudine di africani provocherebbe inevitabilmente dei vasti disordini sociali e per di più essi sono gli eredi di una situazione che non hanno creato, anche se sono stati costretti ad assumerne la pesante eredità.

L’abolizione totale della schiavitù rappresenterebbe anche la sparizione della società del Sud. Questa è la vera tragedia ! Se il Nord vuole imporre l’abolizione senza un periodo di transizione, non potrà esserci altra via d’uscita che la secessione. La questione è particolarmente sentita negli stati “tampone” del cosiddetto “alto Sud”: Kentucky, Tennessee e Virginia, che diventano inevitabilmente luoghi privilegiati di scontro. Il problema diviene esplosivo con il massiccio arrivo della nuova immigrazione e l’apertura dei nuovi territori ad ovest del Mississipi. Questi ultimi saranno liberi o schiavisti ? Nel 1820 il Congresso decide per un compromesso, proibendo il lavoro servile a nord del parallelo 36° e 30’ di latitudine, ad eccezione del Missouri. Tale accordo, provvisorio nello spirito dei contraenti, riesce a tenere unite le contraddizioni esistenti ancora per tre decenni, grazie anche all’esistenza di un nemico comune, prima l’Inghilterra e quindi il Messico. Nel 1850 un nuovo compromesso verrà concluso riguardo il Kansas, ma a Nord un indurimento politico sulla questione contribuisce ad avvelenare i rapporti ed a partire dalla fine degli anni 1860 la tensione arriva ad un punto così elevato che ogni possibile compromesso futuro diviene impossibile. Nasce una guerriglia aperta fra schiavisti ed abolizionisti nel Kansas e nel 1859 la spedizione in Virginia dell’abolizionista mistico John Brown che, voleva liberare con la forza gli schiavi della ditta Harper e Ferry, finisce con un sanguinoso insuccesso e la sua esecuzione serve solo ad irrigidire ancor più le posizioni. Dei giovani ed ambiziosi politici sognano si sottrarre il controllo dello stato federale al partito democratico, ben rappresentato al Sud, ed al vecchio partito whig (conservatori) al Nord. Essi si mettono alla testa di una nuova corrente politica che sogna una nuova espansione della società industriale. Questa corrente esclusivamente nordista ed ostile alla società del Sud, dà origine nel 1854 al Partito dell’Elefante o Repubblicano.

I commercianti, i finanzieri e gli industriali vedono di buon occhio lo svilupparsi di questo partito, che propone l’aumento delle tariffe protezionistiche contro la concorrenza straniera. I pionieri del “Middle West” sono invece attirati dalla promessa di un accrescimento dello stato federale e dell’Unione. Gli intellettuali abolizionisti, Emerson, Longfellow, Whittier, Lowell, forniscono immediatamente il loro sostegno con il loro largo seguito di pastori e di professori.

Nel 1860 la Convenzione repubblicana designa Abramo Lincoln come candidato alle presidenziali. Di fronte a questo uomo nuovo i vecchi partiti non riescono a mettersi d’accordo e dopo sei mesi di una abile campagna elettorale, sostenuta da considerevoli mezzi finanziari, Lincoln diventa Presidente dell’Unione con i soli voti del Nord. Ma egli risulterà comunque l’espressione di una minoranza della Nazione, rappresentando appena 1.857 mila voti sul totale degli otto milioni di elettori (dei quali più della meta si sono astenuti).

Il nuovo Presidente che entra alla Casa Bianca all’inizio del 1861, è un uomo nuovo del Middle West e verrà ad assumersi la più pesante responsabilità di tutta la storia dell’Unione. I tre stati che costituiscono il Middle West, l’Ohio, l’Indiana e l’Illinois non sono stati sempre ostili al Sud, ma il New England ha effettuato un grandioso sforzo per convincere i pionieri del “free soil” (territorio libero) che il loro principale nemico, prima ancora degli indiani, è il lavoro servile secondo la generalizzazione brillante rappresentata dall’equazione: lo schiavo caccia il lavoratore libero, la piantagione scaccia la fattoria.

Lavorato ai fianchi da una propaganda intensa che favorisce l’espansione della stampa, il Middle West è divenuto progressivamente anti sudista, per la paura di una concorrenza sudista per il possesso delle terre vergini.

Se ormai un compromesso è diventato impossibile esiste in linea di massima una soluzione prevista dalla Costituzione federale, ovvero la Secessione pacifica. Gli stati che lo desiderino possono in effetti ritirarsi dall’Unione. Ma il Middle West non può accettare tale situazione. Il suo interesse economico vitale si trova contemporaneamente, sia al Nord che al Sud: esso smercia i prodotti della propria agricoltura verso la costa atlantica grazie alle ferrovie del New England e verso il Golfo del Messico attraverso il corso del Mississipi. Le sue preoccupazioni si affiancano a quelle dell’ambiente industriale e finanziario del New England, che traggono il massimo profitto dalla dipendenza economica del Sud.

A differenza del vecchio Sud, il Middle West non ha che una patria: l’Unione. Già dal 1797 un Rappresentante dell’Ohio, S.F. Vinton, dichiarava al Congresso “essere divisi significa la rovina per i territori dell’Ovest”.

Ma tutta la situazione è destinata a ribaltarsi la sera del 6 novembre 1860, quando a Charleston, la Capitale del Sud cotoniero, apprende la vittoria di Lincoln, l’elezione del Black Repubblican, la vittoria del nemico. Nel giro di quattro mesi, a partire cioè dal 4 marzo 1861, giorno della sua entrata in carica, il governo federale non rappresenterà più l’Unione, ma solamente quello del Nord contro il Sud.

Il 20 dicembre 1860 l’Assemblea della Carolina del Sud vota all’unanimità l’indipendenza dello stato e la sua separazione dell’Unione. “L’unione che esiste oggi fra la Carolina del Sud e gli altri stati sotto il nome di Stati Uniti d’America è dissolta con il presente decreto”. Questa decisione viene accolta da una esplosione di gioia. Nel corso del mese di gennaio 1861, l’esempio della Carolina del Sud viene imitato dal Mississipi, la Florida, l’Alabama, la Georgia, la Louisiana ed il Texas. Alla fine del mese di gennaio ben sette stati hanno dichiarato la loro secessione dall’Unione. Il 7 febbraio seguente essi sono raggiunti dalla Nazione degli Indiani Cherokees ed il 18 dello stesso mese gli stati secessionisti fondano gli Stati Confederati d’America. Essi eleggono inoltre alla Presidenza della Confederazione il senatore Jefferson Davis, un vecchio ufficiale unionista. Altri quattro stati, la Virginia, la Carolina del Nord, l’Arkansas ed il Tennessee si aggiungono alla Confederazione un po’ più tardi e la capitale della Confederazione viene fissata a Richmond in Virginia.

Solo qualche spirito preveggente teme per la reazione del Nord, a cominciare dallo stesso Jefferson Davis che accetta la rottura con dispiacere. Dal momento della proclamazione dell’Indipendenza gli stati si impadroniscono dei locali, dei fondi e delle infrastrutture militari del governo federale. La trasmissione dei poteri si effettua senza problemi maggiori, ad eccezione di Charleston. Il maggiore Anderson, comandante di Forte Sumter, posto all’entrata di uno stretto, rifiuta di consegnare questa modesta fortificazione. Il 4 aprile 1861 Lincoln ordina alla marina federale di sostenere Forte Sumter e questa inattesa decisione mette fuoco alle polveri. Il Sud non può tollerare che venga rinforzata una guarnigione ostile sul suo territorio. Un ultimatum viene indirizzato al maggiore Anderson. Di fronte al suo rifiuto un primo colpo di cannone viene tirato il 12 aprile seguente sul forte che, il 14, è costretto a capitolare.

Il giorno successivo Lincoln ordinando la mobilitazione di un esercito di 75 mila uomini allo scopo di ridurre i “ribelli” alla ragione, da il via alla sanguinosa guerra di Secessione.

 

[1] New England è il nome dato alle quattro prime colonie stabilite a Nord del Potomac ed al di sotto del San Lorenzo: Massachusetts, New Hampshire, Connecticut, Rhode Island, alle quali si aggiungeranno più tardi il Vermont ed il Maine.

[2] La parola Yankee è una deformazione di John Cheese (Giovanni Formaggio) soprannome  primitivamente attribuito ai coloni olandesi della Nuova Amsterdam (New York). La parola Dixie (Dixieland per indicare il Sud) è d’origine francese, viene dalla Louisiana, dove i primi biglietti da dieci dollari portavano la scritta in lettere maiuscole di DIX, da cui appunto i dixie.

[3]De la Democracie en Amerique”, 1836

[4] Sullo schiavismo: Robert William Fogel: The Rise and Fall of American Slavery, Norton & Co, New York, 1989

[5] Più di 50 mila “Neri” hanno combattuto nell’Esercito Confederato. Vedasi: Ervin L. Jordan junior: “Black Confederates and Afro Yankee in Civil War”, Virginia, 1995

La guerra di secessione: una guerra totale

LA GUERRA DI SECESSIONE : UNA GUERRA TOTALE

(Stampato su “SUBASIO” n. 3/14 del settembre 2006, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi)

I due contendenti pensavano ad una guerra facile e di breve durata. Invece fu lunga ed terribile nella quale il sud avrebbe potuto anche vincere. Racconto di una guerra totale e moderna che ha anticipato le tragedie della 1^ Guerra Mondiale..

Quando il 14 aprile 1861 la milizia della Carolina del Sud obbliga Forte Sumter a capitolare, nessuno poteva sospettare che gli stati del Nord e del Sud si sarebbero ingaggiati in una guerra senza quartiere, attraverso la quale l’identità americana ne risulterà profondamente trasformata. Il rapporto di forze era, sulla carta, favorevole agli Stati del Nord, i quali disponevano già di una potente economia industriale e di un potere navale largamente superiore di fronte ad una Confederazione tre volte meno popolata e le cui risorse erano basate essenzialmente sulla esportazione della coltura del cotone ed in minore misura su quella del tabacco e della canna da zucchero.

Per contro la tradizione militare è più forte nel Sud, rimasto in gran parte aristocratico e dove la mobilitazione della popolazione, determinata a mantenere la propria libertà, appare ugualmente più forte.

L’impreparazione dei due avversari nel campo militare è più o meno equivalente e sarà solo con il passare del tempo che la superiorità materiale del Nord potrà far sentire tutti i suoi effetti.

I principali teatri d’operazioni di questa guerra si incentrano principalmente in Virginia, fra Washington e Richmond, quindi lungo il corso del Mississipi, nelle valli del Tennessee e della Cumberland ed infine sulle coste del Golfo del Messico dove il blocco nordista farà sentire progressivamente i suoi effetti.

Entrambi gli avversari  contavano, all’inizio, su una rapida vittoria. I Confederati stimano che il Governo di Washington si stancherà presto nel voler ristabilire l’Unione, mentre Lincoln ed i suoi consiglieri sono convinti che la Secessione è il frutto della volontà di una minoranza che sarà agevole di ridurre alla ragione.

La vicinanza delle due capitali, Washington e Richmond, spinge entrambi i contendenti a concentrare prioritariamente la loro azione in questa regione dell’Est, nella speranza di ottenervi rapidamente la decisione finale.

Il 21 luglio 1861, la prima battaglia di Bull Run (detta anche Manassas), uno scontro confuso, prova evidente dell’inesperienza dei due eserciti, si risolve a sfavore dei Nordisti, che ripiegano in disordine verso Washington.

Questo primo combattimento, sebbene incoraggiante ma strategicamente non sfruttato dai Confederati, contribuisce invece a galvanizzare la volontà dei Nordisti, desiderosi di cancellare questa sconfitta. Lincoln, con il concorso del Segretario di Stato alla Guerra, Stanton e del generale George B. Mc Clellan, lancia immediatamente un prestito pubblico, il cui successo permette di finanziare una guerra di lunga durata e ingaggia un massiccio arruolamento di volontari. Il generale Mc Clellan, battuto a Bull Run, è un organizzatore competente, ma un tattico molto prudente e nonostante la sua superiorità numerica egli esita ad impegnarsi in una operazione diretta in territorio nemico, dove teme la reazione del generale Johnstone, che fa il vuoto davanti a sé. Egli preferisce trasportare la massa del suo esercito in battello sull’istmo di Virginia, fra gli estuari dei fiumi York e James, per poter marciare da quella direttrice su Richmond e tentare di conquistarla con una manovra a tenaglia.

La superiorità navale dei Nordisti consente la agevole impostazione di tale manovra. 100 mila uomini avanzano pertanto da questa direzione sulla capitale confederata, in concomitanza con una azione convergente su Richmond da parte di forze nordiste, più o meno equivalenti, provenienti da Washington.

I Sudisti davanti a questa manovra a tenaglia sono costretti ad anticipare a tutti i costi la riunione delle forze nemiche e nel maggio giugno 1862, giocando sulla mobilità e sulla sorpresa, il generale “Stonewall” Jackson riesce a vincere separatamente diversi corpi nemici nella valle dello Shenandoah. L’azione di Jackson riesce talmente bene che le autorità nordiste sono persino costrette a far tornare indietro parte delle forze nel timore di una azione diretta sulla loro capitale. I Confederati, in inferiorità numerica di effettivi e di artiglieria, riescono comunque a mantenere l’iniziativa e compensano, attraverso la manovra, un rapporto di forze decisamente sfavorevole. La loro azione ha in effetti successo, specie quando il generale Robert E. Lee, il leggendario “Marse Robert”, assume il comando dell’esercito della Virginia e dal 26 giugno al 2 luglio 1862 ottiene la vittoria nella “battaglia dei sette giorni”, che determina la salvezza della capitale sudista.

Mc Clellan, costretto alla ritirata, viene momentaneamente messo da parte, ma il suo successore, il generale Pope, viene battuto il 29 - 30 agosto nella seconda battaglia di Bull Run. Lee, che è cosciente che il tempo gioca a favore del Nord, tenta nel corso delle settimane seguenti di portare la guerra nello Stato del Maryland, del quale si sa che la sua fedeltà all’Unione é vacillante.  Si attende da questa manovra un risultato politico, proprio nel momento in cui devono aver luogo le elezioni al Congresso del Nord. Lee spera in tal modo che la sfida lanciata all’avversario possa incoraggiare il corpo elettorale nordista a pronunciarsi a favore di un compromesso.

L’impresa, in effetti molto ambiziosa, si risolve in una sconfitta e Mc Clellan, richiamato nel comando in capo,        pensa di poter tagliare la ritirata ai Sudisti. La sua lentezza nell’azione, lascia comunque ai Sudisti la possibilità di ripiegare in buon ordine in Virginia, dopo uno scontro senza esito il 17 settembre 1862, sulle rive dell’Antietam, un affluente del Potomac.

Mentre all’Est le operazioni ristagnano, la guerra ad ovest degli Appalachi, iniziata con qualche scaramuccia nel 1861, prende una maggiore consistenza nel corso del 1862.

In linea di massima i Nordisti controllano nell’area i grandi corsi d’acqua e dispongono della maggioranza dei mezzi di trasporto fluviali. Il generale Ulisses S. Grant (che diventerà in breve il principale comandante del campo nordista), comandante nordista delle truppe riunite nella località di Cairo, una località posta alla confluenza dell’Ohio e del Mississipi, riesce nel frattempo ad impadronirsi dei forti Henry e Donelson, posti rispettivamente a sbarramento delle valli del Tennesse e della Cumberland, costringendo alla ritirata il generale sudista Johnstone. Questi però riesce a sorprendere Grant a Shiloh, lungo il corso del Tennessee, il 13 aprile 1862 e sarà necessario l’arrivo di un altro esercito nordista di rinforzo, comandato dal generale D. C. Buell per ristabilire una situazione di equilibrio.

Due mesi più tardi una flottiglia di cannoniere nordiste arriva a conquistare la città di Memphis, prima tappa per il successivo assedio di Vicksburg, posta più a sud sul Mississipi, punto nevralgico dei collegamenti sudisti, dove giunge la ferrovia che collega il corso inferiore del gran fiume con Atlanta, capitale della Georgia. A Washington però i governanti non riescono a valutare perfettamente le possibilità operative che si aprono nel teatro dell’ovest, continuando a privilegiare il teatro d’operazioni orientale.

L’offensiva del generale Buell viene però anticipata da quella sudista del Generale Bragg nel Kentucky. I Confederati sono poi costretti al ripiegamento dopo la battaglia di Perryville, agli inizi di ottobre, riuscendo a mantenere l’iniziativa e facendo perdere ai Nordisti del tempo prezioso.

Mentre sul teatro operativo terrestre si sviluppano i predetti scontri, il Nord sfrutta a fondo la sua superiorità navale. A partire della primavera del 1862 esso è in misura di applicare un blocco navale alle coste della Confederazione, tra l’altro molto povere di installazioni portuali (Savannah è in effetti il solo sito portuale importante sulla costa orientale). La conquista da parte dei nordisti, alla fine del mese di aprile 1862, della città di New Orleans  (conseguita dalla flotta dell’ammiraglio Farragut, risalendo il braccio principale del fiume Mississipi), toglie al Sud la sua città principale, ben quattro volte più popolata della capitale Richmond. I sudisti, nonostante lo smacco, riescono comunque a mantenere il controllo del corso inferiore del Mississipi, fra Vicksburg e Porto Hudson.

Alla fine del 1862 nulla sembra deciso ed i due belligeranti sono ormai costretti a rinunciare alla speranza di una rapida vittoria. L’abolizione della schiavitù nei paesi confederati conquistati dall’Unione, annunciata dal Congresso di Washington nel luglio 1862, serve a dissuadere l’Inghilterra da un suo intervento a favore del Sud. I Confederati, che molto si attendevano dalle elezioni dell’ottobre novembre nel Nord, rimangono delusi dai risultati, perché sebbene si registri una crescita dell’opposizione democratica, Lincoln ed i repubblicani riescono a mantenere una maggioranza sufficiente. A partire da questo momento le possibilità dei Confederati di una vittoria finale cominciano a ridursi sensibilmente.

Nel novembre 1862, sul fronte principale della Virginia e del Maryland, Mc Clellan viene sostituito dal generale Burnside, che prende il comando dell’Armata del Potomac e che viene completamente battuto il 13 dicembre seguente a Fredericksburg da un esercito sudista nettamente inferiore di numero, ma solidamente organizzato a difesa dietro il fiume Rappahannock. Questa sconfitta provoca un certo rimescolamento fra la classe politica nordista, ma incoraggia anche i repubblicani più radicali a continuare la lotta fino alla fine con l’introduzione, il 3 marzo 1863 della legge sulla Coscrizione Obbligatoria.

Anche lo sconfitto Burnside viene rimpiazzato con il generale Hooker, che non avrà maggiore fortuna del suo predecessore. Di fatto egli sarà sonoramente sconfitto il 4 maggio seguente nello scontro di Chancellorsville dalle forze del generale Lee, due volte inferiori di numero. Le operazioni mettono chiaramente in evidenza che il colpo d’occhio tattico e la capacità di manovra sono decisamente dalla parte sudista, anche se questi hanno perso uno dei loro migliori comandanti: “Stonewall” Jackson.

Ma i successi tattici sudisti della primavera del 1863 hanno chiaramente dei limiti, dei quali Lee è pienamente cosciente. Occorre in effetti una vittoria decisiva che costringa l’Unione ad un compromesso. Nella seconda quindicina di giugno, l’esercito confederato decide di traversare il Potomac ed invade la Pennsylvania, dove deve affrontare le forze del generale Meade, che ha, a sua volta, sostituito Hooker per ordine di Lincoln.

Il 1° luglio le avanguardie dei due eserciti si scontrano per caso all’altezza di Gettysburg, un piccolo borgo sperduto della Pennsylvania. La prima giornata degli scontri è favorevole ai Confederati, che raggiungono le posizioni di Ceminary Ridge. Da quel punto gli assalti frontali dei sudisti si scontrano contro la feroce resistenza dei Nordisti. L’aiutante di Lee, il permaloso e scorbutico generale Longstreet, mette poco entusiasmo nell’eseguire gli ordini del comandante in capo. Egli avrebbe preferito una manovra di avvolgimento, ma Lee temeva che questa azione avrebbe consentito al nemico di sottrarsi al combattimento, cosa che doveva evitare a qualsiasi costo. La ricerca dello scontro decisivo era diventata in effetti una opzione vitale per il Sud, perché un continuo ed indefinito inseguimento avrebbe finito per logorare le forze sudiste, accrescendo in tal modo le possibilità di vittoria del Nord.

Ma, nello specifico, le forze nordiste riescono a mantenere le posizioni nonostante le epiche cariche de i loro avversari, specialmente quelle della leggendaria brigata dei virginiani del generale Pickett. Alla fine Lee deve rassegnarsi a ritirarsi. Le perdite sono pesanti da una parte e dall’altra e corrispondono più o meno ad un terzo degli effettivi impiegati nello scontro. Lee riesce a condurre efficacemente il suo ripiegamento, ma l’esercito che riporta in Virginia è un contingente molto indebolito.

La situazione generale confederata dopo la giornata di Gettysburg è decisamente critica, tanto più che proprio nello stesso periodo anche il nodo di Vicksburg cade nelle mani dei Nordisti. Le forze nordiste conquistando la piazzaforte che dominava il corso inferiore del Mississipi, hanno ormai diviso in due gli Stati Confederati e sono ora in condizione di lanciare un’offensiva contro la regione confederata fra il fiume ed i monti Allegheni.

In effetti la situazione nel teatro di operazioni dell’ovest era rimasta stazionaria fino all’inizio del 1863 e la battaglia di Stone’s River del 2 gennaio 1863, fra il generale nordista Rosecrans ed quello sudista Bragg, al di là delle rispettive ingenti perdite, non aveva permesso ai due contendenti di cambiare la situazione.

La caduta di Vicksburg viene pertanto a mutare radicalmente la situazione. I sudisti, in effetti, attraverso il controllo dei 300 chilometri del corso inferiore del Mississipi potevano mantenere aperti, nonostante gli effetti del blocco navale nordista, i loro collegamenti con il Texas e l’Arkansas, così come il loro commercio con il Messico. Per i Nordisti la presa di Vicksburg diviene col tempo una imprescindibile priorità operativa, nonostante i ripetuti insuccessi per la sua conquista. Alla fine Grant, riesce a trasportare le sue forze anche a sud della piazzaforte, facendole sfilare in battello attraverso il fiume sotto il fuoco delle artiglierie avversarie. La manovra riesce grazie alla colpevole inazione del generale confederato Pemberton, responsabile della difesa della piazzaforte sudista. Da quel momento, maggio 1863, ha inizio l’attacco sistematico alla fortezza, che sarà costretta alla resa il 1° luglio seguente dopo quarantaquattro giorni di duro assedio.

La capitolazione di Vicksburg significa per il Sud la perdita di 30 mila uomini, di ingenti quantità di materiali e soprattutto la perdita definitiva del controllo del corso del Mississipi.

Il Nord cerca rapidamente di sfruttare l’evidente vantaggio acquisito. Il generale Rosecrans conquista il 9 settembre 1863 la città di Chattanoooga sul Tennessee, dopo aver sloggiato Bragg dalle sue posizioni fortificate di Tullahoma. Sei giorni dopo Burnside riesce a conseguire il controllo di Knoxville, un importante nodo ferroviario posto più ad est. Il generale sudista Bragg lancia il 20 dello stesso mese un brillante contrattacco a Chikamauga, costringendo Rosecrans a trincerarsi a Chattanooga, ma il successo tattico riportato dai sudisti, costato molto caro in effettivi da entrambi le parti, viene rapidamente annullato dall’arrivo delle forze nordiste del generale Shermann, che nel novembre dello stesso anno liberano Chattanooga dall’assedio, togliendo ai sudisti una possibile vittoria decisamente positiva sotto l’aspetto morale e materiale.

Ormai il tempo gioca sempre di più a favore del Nord, le cui risorse umane e materiali non cessano di aumentare (nel marzo 1865 l’Unione sarà in grado di opporre ben 900 mila uomini ai 175 mila logorati effettivi dei Confederati).

La prosperità agricola ed industriale del Nord e l’aumento delle tariffe doganali, che proteggono il suo mercato dalla concorrenza straniera, contribuiscono ad aumentare la differenza ed assicurano senza soverchi problemi il finanziamento dello sforzo bellico. Per contro l’isolamento del Sud ed il suo sottosviluppo industriale diventano ogni giorno di più un handicap insormontabile.

Nel febbraio 1864 Lincoln conferisce a Grant il grado di Luogotenente Generale, facendone di fatto il comandante in Capo di tutto l’Esercito nordista. Questa nuova unità di comando dà immediatamente origine alla applicazione di una strategia fondata sulla concentrazione di tutti gli sforzi su due direttrici: il generale Sherman deve avanzare da Chattanooga in direzione di Atlanta e del porto sudista di Savannah, mentre Grant ed il generale Meade devono concentrare la loro azione contro Lee per la conquista di Richmond.

Sapendo perfettamente che il rapporto di forze sul campo è ormai di 2 a 1 per i Nordisti, Grant non si preoccupa più di sottigliezze legate alla manovra, ma decide di lanciare una serie di attacchi frontali, anche a prezzo di rilevanti perdite umane, nella convinzione che l’avversario soffrirà perdite analoghe e che una logica di usura del più debole porterà inevitabilmente alla sua vittoria finale.

Nonostante la superiorità di manovra dell’avversario, Grant accentua la sua pressione su Richmond e Lee, ormai cosciente del pericolo della tattica di Grant, tenta un ultimo colpo, lanciando le forze del generale Early nella valle della Shenandoah. Questi nel luglio 1864 arriverà fino alle porte di Washington, ma la reazione nordista, affidata alle forze del generale Sheridan, salva la situazione.

Nel frattempo a Sud il generale Sherman ha lasciato Chattanooga il 5 maggio 1864 in direzione di Atlanta. Superando in tempi successivi le ripetute ed efficaci difese poste dal generale sudista Johnstone, egli giunge in vista del suo obiettivo iniziale. Jefferson Davis, il Presidente dei Confederati, rimpiazza Johnstone con il generale John Bell Hood, ma questi, nonostante i ripetuti sforzi, è costretto a salvare le sue forze, evacuando il 1° settembre la città di Atlanta.

Conquistata Atlanta, Sherman deve far fronte alle operazioni di guerriglia condotte dai confederati contro le sue linee di comunicazione e davanti a questa nuova tattica dell’avversario decide di tenere riunite tutte le sue forze e di marciare su Savannah, effettuando nel contempo una sistematica depredazione delle risorse locali per sopravvivere. La tattica di Sherman si rivela disastrosa per il Sud e per lo stato della Georgia. Una fascia di 90 chilometri di larghezza per una lunghezza di 450 chilometri viene sistematicamente saccheggiata, incendiando tutte le abitazione incontrate e trasformando in un deserto le campagne della Georgia. L’effetto di demoralizzazione sulle popolazioni sudiste è terribile, tanto più che nel dicembre 1864 le forze del generale Hood vengono battute nello scontro di Nashville.

Una volta giunto a Savannah e ristabilito il cordone ombelicale logistico con le forze sudiste attraverso l’oceano, Sherman decide di risalire verso il nord per effettuare la giunzione con le forze di Grant. Continuando nell’opera di sistematico saccheggio, le truppe nordiste incendiano e mettono a sacco Columbia, la capitale della Carolina del Sud e la città di Charleston.

Da parte sua Grant riprende l’offensiva alle fine del mese di marzo 1865 ed il 2 aprile seguente Lee, che non dispone più dei mezzi per fronteggiare la minaccia, è costretto ad abbandonare Richmond. Le forze sudiste sono ormai ridotte a circa 20 mila uomini affamati ed a pezzi (disperati). Il 9 aprile 1865, nella località di Appotomax, Lee è costretto ad accettare la capitolazione. Tuttavia egli ottiene per i soldati confederati il diritto a rientrare alle loro case. Otto giorni più tardi, viene concluso un accordo più ampio fra Sherman e Johnstone, ma le sue clausole relativamente moderate saranno rimesse in discussione dall’assassinio di Lincoln, avvenuto il 14 aprile 1865. Dopo le prove e le difficoltà provocate da una guerra durata quattro anni, lo sfortunato Sud dovrà subire anche la vendetta dei suoi vincitori.

La SHARIA

La SHARIA

Istruzioni per l’uso, ovvero il Corano nel quotidiano

(stampato sulla pag. del CORRIERE dell’UMBRIA di PG, del giu 2004)

Il libro sacro nel mondo mussulmano non prevede tutti casi della vita quotidiana del credente. A fronte di questa carenza di spiegazioni, i primi Califfi sono costretti a reagire e trovare una soluzione.

Ladri dalle mani amputate, donne adultere lapidate, uomini flagellati perché colpevoli del mancato rispetto del divieto di consumazione di alcolici, intellettuali minacciati di morte per aver fatto professione di ateismo …. La Sharia, insieme al Jihad (Guerra Santa) è senza dubbio il termine che più fortemente evoca nell’uomo occidentale la rappresentazione di un Islam dai caratteri medievali, un vero nemico dei diritti dell’uomo.

Dal Pakistan al Sudan, dall’Afghanistan all’Arabia Saudita, passando per l’Iran, l’islamismo più radicale ha contribuito non poco a diffondere questa visione di una legge religiosa immutabile, fondata su dei principi spogliati di ogni pietà.

La Sharia fornisce in effetti al mussulmano gli orientamenti e le indicazioni della via da seguire dal punto di vista giuridico, consentendo inoltre allo stesso tempo l’ordinato convivere ed il funzionamento della comunità mussulmana.

In sostanza essa definisce i rapporti dell’uomo con la divinità e degli uomini fra di loro nel ristretto ambito della vita quotidiana. Ma se si vuole comprendere tutta la sua portata e le sue implicazioni nei conflitti che scuotono l’Islam contemporaneo, non bisogna compararla semplicemente ad un codice penale, alla maniere ad esempio del codice napoleonico. Anche se la Sharia presenta indubbiamente degli aspetti giuridici essa è un fenomeno decisamente molto più complesso. Essa appare piuttosto come un insieme di testi che riuniscono una serie di principi, sia di natura religiosa, sia di natura giuridica.

La Sharia, elaborata nel corso dei primi secoli dell’Islam, rappresenta la sintesi e la conseguenza di fonti diverse.

Il Corano ne rappresenta la sorgente primaria, proprio perché riporta la parola divina, ma dei circa sei mila versetti (Sure) del Corano ce ne sono poco più di duecento che rivestono un carattere giuridico. Veramente poco per legiferare in tutti i campi della vita di una comunità che nel giro di pochi decenni si è estesa in maniera considerevole, evidenziando esigenze e problematiche completamente nuove e sconosciute allo stretto ambito del mondo della penisola arabica.

I Dottori dell’Islam si sono pertanto dovuti rivolgere verso la Tradizione, la Sunna, che rappresenta la seconda sorgente della Sharia e che riunisce il complesso degli Hadith, tutti i numerosi Commenti espressi dal Profeta e dai suoi primi compagni di fede.

L’elaborazione di questa raccolta ha suscitato delle vive controversie (specie nell’individuare il vero dal falso nella massa di commenti apocrifi esistenti), senza peraltro risolvere definitivamente il problema, per l’impossibilità di raccogliere delle prove incontestabili.  Ciò nondimeno gli Hadit occupano nella Sharia un ruolo ed una posizione decisamente più importante rispetto ai versetti del Corano.

Lo sforzo di riunire e revisionare i commenti al Corano non è risultato sufficiente a stabilire un insieme giuridico idoneo e soprattutto adeguato alle esigenze dello smisurato impero conquistato dai successori del Profeta.

Al Corano ed alla Sunna si è gradatamente aggiunta la Giurisprudenza, il Fiqh, diritto elaborato dai Dottori della Legge, per adeguare ed allineare i testi sacri ai differenti contesti etnici culturali e geografici ed alle differenti esigenze connesse. Questa ricerca di risposte adeguate, nello spirito del Corano e della Sunna, non solo alle necessità locali della vita religiosa ma anche a quelle sociali e politiche, si fonda su un principio fondamentale del diritto mussulmano: un indispensabile Sforzo di Interpretazione, l’Ijitihad[1], dei precetti dell’Islam che permettono ai Credenti di vivere al passo con i tempi.

L’elaborazione di questa giurisprudenza, ha consentito, a partire dall’8° secolo, la nascita e lo sviluppo di quattro grandi scuole giuridiche[2], la cui rilevante influenza si fa ancora sentire al giorno d’oggi. Il diritto islamiche che viene comunemente designato sotto il termine di Sharia e pertanto il risultato di questo lavoro di interpretazione e di codificazione delle fonti dell’islam, condotto dai giuristi mussulmani fra il 7° ed il 10° secolo: Quest’opera, a partire da questa epoca, è rimasta praticamente immutata, specie nell’Islam sunnita, a seguito del cosiddetto fenomeno di “Chiusura delle porte dell’Ijitihad”, effettuato dal mondo mussulmano di allora, per ragioni sia politiche che religiose, forse anche nella errata convinzione che l’essenziale dello sforzo interpretativo era stato già condotto a buon fine.

Ciò nonostante l’applicazione della Sharia è risultata variabile da un paese all’altro, specie per l’effetto del peso delle tradizioni locali, come ad esempio nei paesi mussulmani dell’Asia.  La severità delle pene che la Sharia prescrive è stata ugualmente temperata dalla scrupolosità imposta nella individuazione della colpevolezza e nei gravi rischi che corrono i colpevoli di falsa testimonianza (80 colpi di frusta per una accusa infondata di adulterio).

Peraltro la Sharia non rappresenta più oggi la legge fondamentale per numerosi paesi a maggioranza mussulmana, che hanno adottato dei sistemi giuridici prossimi a quelli in vigore in Europa.

Misto di raccomandazioni di origine divina e di tradizioni ereditate da un epoca passata, la Sharia rimane comunque un problema d’attualità in tutto il mondo mussulmano. Numerosi intellettuali mussulmani, a differenza degli islamisti radicali e nel solco di un movimento riformatore apparso nel secolo scorso, si sforzano di evidenziare i gravi limiti di un codice giuridico che, anche se non sempre ufficialmente in vigore, continua a permeare, fortemente ed in maniera considerevole, la cultura mussulmana. Allo stesso modo la disuguaglianza della donna nei confronti dell’uomo; la differenza di uguaglianza per i credenti di confessioni religiose non mussulmane il cui statuto, previsto dal Corano (Dhimmi, che era eufemisticamente l’espressione giuridica di una tolleranza poco comune per …. quei tempi), concede tutt’ora una sorta di “apartheid”, con diritti civili… ridotti all’osso.

Infine la difficile libertà di coscienza, in quanto l’accusa di apostasia (abbandono volontario di una religione) anche se raramente conduce alla condanna a morte colui che rinnega la sua fede, ciò significa comunque, per il colpevole, la messa al bando dalla società e la perdita di tutti i suoi diritti. Una tale sorte colpisce ancora oggi, in numerosi paesi, anche tutti i riformisti dell’Islam, per i quali l’adeguamento della legge mussulmana dovrebbe passare necessariamente nella perdita di sacralità e di immutabilità di principi, adottati in un epoca ed in un contesto storico oggi superati.

Questa dissacrazione resta comunque un fenomeno ancora da percorrere, ma esso non appare illegittimo nei riguardi della stessa tradizione religiosa e giuridica. Omar, il secondo Califfo, non aveva forse vietato l’amputazione delle mani dei ladri in periodo di sconforto e di crisi ?  E questa crudele prescrizione proveniva in ogni caso direttamente dal testo più sacro dell’Islam, il Corano !!!

 

[1] Lo “sforzo” di innovazione e di interpretazione, anche personale, della legge mussulmana, in opposizione al concetto della sottomissione senza riserve alla tradizione (Taqlid).

[2] Malekita, Anafita, Hanbalita, Kafeita

La metamorfosi della influenza

La metamorfosi della influenza

 

(Stampato su “SUBASIO” n. 4/15 del dicembre 2007, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi).

 

La minaccia di epidemia, di una ampiezza equivalente a quella della febbre spagnola, incombe sul mondo. La storia della malattia, che si ritrova attraverso le fonti a partire dal 14° secolo, permette di dire che la sua diffusione appare sempre possibile.

S

egnalata in Turchia, in Romania ed in Grecia nel mese di ottobre 2005, l’epidemia di influenza aviaria che ha devastato gli allevamenti dei polli dell’Estremo Oriente ed ha già fatto vittime umane, ha suscitato le più vive inquietudini. L’influenza è una malattia degli uccelli come anche degli uomini. Parlare di virus dell’influenza è una semplificazione, poiché i virus influenzali sono molteplici e cambiano ogni anno. Responsabile di epidemie annuali, l’influenza provoca regolarmente anche delle pandemie, vale a dire delle epidemia di notevole ampiezza, a causa della propensione del virus a mutare in agente più virulento.

A partire dal 1931 e dalla scoperta di un virus nominato arbitrariamente H1N1, poiché questo era il primo conosciuto, sono stati identificati diversi ceppi umani: il ceppo detto A il più aggressivo, il ceppo B, responsabile di epidemie più limitate ed il Ceppo C l’ultimo identificato. I virus influenzali sono per di più identificati attraverso le caratteristiche di due dei loro componenti essenziali: L’emaglutinina (H) e la neuraminidasi (N), indicati con un numero di riferimento ad una nomenclatura internazionale. In tal modo l’attuale virus dell’influenza aviaria viene chiamato “H5N1”.

Particolarmente instabili, i virus di tipo A, al quale appartiene l’H1N1, conoscono delle mutazioni, sia delle variazioni minori detti “scivolamenti”, sia modificazioni maggiori, chiamate “rotture”, che generano delle varianti vicine al virus iniziale. L’immunità acquisita al virus iniziale continua a proteggere l’organismo contro la variante fino a quando l’accumulazione delle modificazioni porta ad una alterazione del suo riconoscimento da parte del sistema immunitaria ed apre la strada ad una nuova epidemia.

Nel caso delle “rotture genetiche”, le modificazioni radicali del menoma del virus sono in gran parte responsabili della virulenza, dell’estensione geografica e della morbosità del fenomeno nel corso delle pandemie. L’immunità acquisita al contatto dei virus influenzali che circolano stagionalmente o grazie alle vaccinazioni annuali non è più in grado di proteggere.

I serbatoi primari della malattia sono molteplici: uccelli migratori o domestici (poli, oche) che posso essere dei tramiti diretti o indiretti fino all’uomo - ci sono delle buone ragioni per pensare che l’agente dell’influenza ha da sempre infettato gli uccelli. La maggior parte delle mutazioni del virus influenzale nasce in Estremo Oriente, regione dove la popolazione ha per abitudine di vivere a stretto contatto con degli animali “serbatoio” potenziali dell’influenza.

Nell’emisfero Nord il virus appare di norma nel mese di ottobre e circola fino al mese di aprile. Nell’emisfero Sud, il ciclo prosegue da aprile ad ottobre. Dal momento in cui raggiunge l’uomo, la trasmissione del virus, di estrema contagiosità, avviene più spesso da uomo a uomo per contatto diretto. La contaminazione avviene essenzialmente per via aerea e l’incubazione della malattia è corta, dalle 24 alle 48 ore.

I sintomi si caratterizzano con una forte febbre che può raggiungere spesso i 40 gradi o più, accompagnata da cefalee, indolenzimenti, brividi e da una rinofaringite. Le sue forme più gravi danno segni di sofferenza respiratoria acuta, emorragie e problemi digestivi. Ogni forma influenzale può accompagnarsi a complicazioni legate all’ambiente, che toccano particolarmente i bambini in tenera età e le persone anziane.

Per mancanza di documentazione e di testimonianze precise, risulta difficile, fino al 18° secolo, determinare la natura precisa delle febbri acute, di cui si ritrovano le tracce. Tuttavia riguardo alla supposta vecchiaia del virus in termini di evoluzione, tutto porta a credere che l’influenza esisteva già allora. Comunque sia, sembra che nel 1357, in occasione di una epidemia italiana, sia stato usato il termine di influenza, col significato iniziale di influenza degli astri (influentia coelesti) e quindi influenza del freddo “influenza di fredo”.

Nel 16° secolo, ben quattro pandemie imperversano in Europa, così come in Africa ed Asia. Poi altre quattro sopravengono nel 17° secolo. Nel 1659 il medico britannico Thomas Willis “nota i sintomi di tosse, d’espettorato, lo stato febbrile ed astenico, i dolori muscolari …” Egli sottolinea  inoltre “il carattere epidemico della malattia, la sua comparsa brutale e l’implicazione simultanea di un gran numero di individui”.

A partire dalla fine del 18° secolo, cinque pandemie influenzali vengono identificate e  descritte, come quella del 1781 - 83. Il 19° secolo ne conosce altre tre, di cui quella degli anni 1898 - 1900 risulta particolarmente grave.

Poi l’attività influenzale si attenua fino al 1918 quando si manifesta l’influenza detta “spagnola”. In pochi anni l’epidemia colpisce 1 miliardo di persone e provoca, a seconda delle diverse stime, fra 20 e 40 milioni di morti, dei quali diversi centinaia di migliaia nella sola Italia. Le devastazioni, causate dalla sua straordinaria virulenza, sono state quasi certamente l’effetto di diverse cause concomitanti; per esempio la coesistenza fra un virulento mito mutante ed un altro virus che ha colpito, specie in Europa, una popolazione indebolita da diversi anni di guerra e di privazioni.

Dopo la terribile influenza spagnola, nessuna altra epidemia si verifica fino agli anni 1950, Questo periodo è segnato da un’intensa attività di ricerca e vengono scoperti i tre ceppi del virus. Ma è nel 1957 che compare nella Cina centrale un nuovo virus di tipo A (H2N2) e questi sarà all’origine di una pandemia conosciuta come influenza “asiatica”. Sebbene il numero delle persone colpite sia considerevole, la mortalità resta inferiore a quella registrata in occasione di precedenti epidemie. E’ possibile che tutto questo possa essere legato alla presenza, presso i malati anziani, di anticorpi specifici del ceppo in causa, conseguenti all’epidemia della fine del 1800.

Un nuovo virus del ceppo A, l’H3N2, viene isolato a Hongkong nel luglio 1968. Esso si sparge rapidamente in Estremo oriente, Asia centrale, India, Giappone ed Australia, all’inizio dell’autunno, quindi negli Stati Uniti nel corso dell’inverno 1969 - 70 e provoca la morte di circa 1 milione di persone in tutto il mondo.

Nel 1976 una inquietante epidemia influenzale si manifesta nel campo militare del New Jersey negli Stati Uniti, dove diverse centinaia di militari vengono infettati da un virus influenzale di origine suina. Ma questa fiammata si spegne nel giro di qualche settimana. Un anno più tardi, nel novembre 1977 a Leningrado, viene identificata una nuova epidemia influenzale conseguenza di un virus di ceppo A (H1N1), già all’origine delle epidemie umane fra il 1946 ed il 1957. In realtà, l’originalità di questa scoperta concerne il fatto che questo virus non rimpiazza i precedenti, come avveniva normalmente, ma vi si aggiunge.

A partire di questa data due virus del ceppo A circolano simultaneamente.

Si pensava fino a poco tempo fa che i virus dell’influenza aviaria non potessero essere patogeni per l’uomo, senza passare attraverso un ospite intermedio quale il suino. Orbene nel 1997 una terribile epidemia epizootica devasta, specialmente a HongKong, gli allevamenti di polli. Questa è la nascita di quello che i media hanno chiamato “influenza dei polli”. Lo stesso anno le autorità sanitarie constatano che il virus può direttamente passare all’uomo: in agosto, l’ormai celebre H5N1 viene isolato in un bambino morto a seguito della malattia. L’epizootica viene arrestata a seguito dell’abbattimento massiccio di animali ed i rischi di propagazione circoscritti, ma il pericolo rimane presente come lo dimostrano i differenti tipi di virus dell’aviaria che hanno imperversano nel 1999 e nel 2003 (H9N2) a Hongkong e nei Paesi Bassi nell’aprile 2003 (H7N7).

Nel 2004 la minaccia riappare. l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) lancia un allarme riguardo una grave epidemia epizootica, dovuta al virus (H5N1), che devasta gli allevamenti di diversi paesi dell’Asia del Sud Est. Nel luglio l’influenza aviaria si manifesta in Cina ed Indonesia, nel Vietnam ed in Tailandia. La trasmissione del virus aviario alle altre specie, compreso l’uomo,rimane al momento limitata. Ma questo non è impossibile, come lo dimostra specialmente la moltiplicazione in Estremo Oriente delle persone colpite da virus H5N1.

Quello che c’è di nuovo con l’influenza aviaria non è certo la malattia in sé stessa, ma le condizioni della sua trasmissione. Quello che aggrava le cose è l’accelerazione degli spostamenti degli uomini, delle mercanzie, degli animali, che favorisce la diffusione degli agenti patogeni. In qualche ora il virus influenzale può essere trasportato dall’Asia ad un altro capo del pianeta. Il rischio di emergenza di un nuovo virus, suscettibile di provocare una pandemia negli uomini, rimarrà fino a quando il virus dell’influenza aviaria resterà nell’ambiente. Una pandemia influenzale di tipo A potrà probabilmente avvenire senza che si possa predire quando e dove e né la virulenza della malattia. L’OMS precisa tuttavia che “la minaccia dell’influenza aviaria è ben conosciuta. Contrariamente a quanto avvenuto in precedenza esistono già dei testi diagnostici e degli antivirus efficaci anche se costosi. La situazione è difficile ma la messa a punto di un vaccino umano diretto contro questo ceppo di virus si trova già in fase ben avanzata di sviluppo”

La spada di Damaschino

LA SPADA DI DAMASCHINO

Tecnica di fabbricazione della spada nel medioevo

(stampato sul “SUBASIO” n. 1/12 del marzo 2004, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi,)

Quando si osserva una spada ricoperta di ruggine in una vetrina di un museo, difficilmente si riesce ad immaginare capire quale fosse il suo vero aspetto e soprattutto quali tesori di tecnologia furono utilizzati per la sua fabbricazione.

Le spade di damaschino del cosiddetto periodo “oscuro” del medioevo, sono fra le più belle mai forgiate dalla mano dell’uomo ed i loro nomi si sono persino trasmessi fino ai nostri giorni, come Excalibur, Durandal. Da un punto di vista storico esse corrispondono all’epoca carolingia o anteriore. Successivamente la fabbricazione di tali tipi di armi subisce un lento inarrestabile declino per praticamente quasi sparire nel periodo delle Crociate. Questo declino è ancora oggi difficilmente comprensibile: per certi autori la spiegazione risiede nella forte domanda di spade esistente nel periodo delle predette spedizioni in oriente, coniugata con l’impossibilità di effettuare una produzione di massa per delle armi così complesse. A queste cause sicuramente fondate va forse aggiunta anche quella di un cambiamento nell’estetica delle spade e soprattutto quella della modernizzazione nella produzione degli acciai e nelle tecniche di tempra[1]  e di rinvenimento[2]

La tecnica del damaschinato attraverso la saldatura di forgia ha subito una eclisse di circa mille anni prima di essere riscoperta, principalmente per merito di Eduard Salin, negli anni 50 e 60. In effetti, in occasione degli scavi di cimiteri merovingi e più raramente nella scoperta di spade carolingie (bisogna tener conto che la Chiesa, a partire da questa epoca, aveva invitato i fedeli a non deporre dei corredi funerari accanto ai defunti), gli archeologi si erano accorti che le spade ritrovate possedevano dei disegni strani sul piatto delle lame. Si avanzò persino l’ipotesi che dei fili di metallo fossero stati incrostati nel metallo a fini di decoro, ma dopo alcune analisi di laboratorio si accorsero che la decorazione era l’effetto della massa del metallo, cosa che escludeva a priori una qualsiasi pseudo tecnica di damaschinato.

Ulteriori sperimentazioni permisero di scoprire la tecnica di fabbricazione. La lama era stata semplicemente forgiata con dei metalli eterogenei, nel caso specifico, ferro ed acciaio e questo secondo uno schema predeterminato al fine di produrre un certo effetto estetico.

In seguito queste tecniche sono state pazientemente riprodotte da parte di artigiani specializzati il cui talento e capacità tecnica ha permesso di riottenere una perfetta riproduzione di questo tipo di spade.

La Damaschinatura ed il Damaschino ritorto

Per comprendere la nozione di Damaschinato, è sufficiente immaginare gli importanti vincoli meccanici che una spada deve soddisfare: deve possedere un taglio molto duro in modo di essere affilato ma deve anche essere abbastanza leggera e resistente da non spezzarsi sotto l’effetto di un impatto violento su un elmetto o su uno scudo. Tutto il paradosso della spada viene dal fatto che il ferro è leggero ma malleabile e duttile mentre l’acciaio temprato è duro ma facile alle rotture. Per conciliare ed ottimizzare i due vantaggi e nel contempo minimizzare i due inconvenienti è sufficiente associare intimamente questi metalli; cosa che è resa possibile dalla eccellente qualità posseduta da questi elementi di saldarsi fra di loro a caldo. Poiché questi metalli reagiscono in maniera diversa all’applicazione di un acido (l’acciaio annerisce ed il ferro rimane neutro) sarà quindi possibile alla fine della lavorazione ottenere un disegno di bell’effetto sulla lama.

La più grande parte delle lame del medioevo è pertanto forgiata secondo la tecnica del damaschino che poi troverà un perfezionamento nel Damaschino ritorto.

Un forma primitiva di questa metodologia si trova nella lunga spada di Tène la cui tecnologia sarà perfezionata dai Germani, trovandosi questi isolati dall’influenza dei Romani per effetto del “limes” sul Reno e sul Danubio. D’altronde i Romani, pressati da una produzione di massa di armi ed equipaggiamenti da approvvigionare per le legioni, avevano piuttosto un concezione di tipo industriale nello loro cose e pertanto non erano particolarmente interessati alla produzione di armi dalla fabbricazione molto sofisticata. Ciò nondimeno diversi atelier romani, sparsi per tutto l’Impero, produssero anche tale tipo di armi, specialmente quello di Amiens, che era più vicino alla zona di riferimento.

La spada dei Celti è il prodotto dell’assiematura, a caldo, di lamine di ferro e d’acciaio poste le une contro le altre a “mille foglie”. Il disegno che ne risulta è più o meno regolare e ciò dipende dalla qualità della lama e dal saper fare (abilità tecnica) dell’artigiano o del fabbro ferraio che ha lavorato.

Una decorazione supplementare può essere aggiunta con un procedimento di rivelazione con l’acido effettuata in maniera selettiva con degli stampi in cera, in modo da non corrodere certe parti del metallo. Questa tecnica molto semplice consente di generare disegni come scavati ad acquaforte. Nonostante la somma delle tecnologie messe in opera, la spada celtica risulta di seconda qualità se comparata  con la tecnologia usata nella spada lunga delle “invasioni vichinghe”.

L’idea veramente geniale del damaschino ritorto, inventata in qualche parte dell’est del Reno verso la fine del 1° secolo, consiste in un perfezionamento delle  di fabbricazione e del trattamento della spada dei Celti. Nella nuova tecnica le lamine composite sono meno numerose ma soprattutto esse vengono ritorte in modo da rendere la saldatura a caldo più resistente ed ottenere la moltiplicazione delle superfici di contatto. L’interesse è pertanto duplice: esteticamente il risultato è un superbo disegno a forma di gallone, conseguenza dell’alternanza delle spire di torsione, moltiplicato dal numero degli accoppiamenti delle barre di base. L’altro interesse è che questa struttura composita rende la lama damaschina tre volte più resistente alla flessione rispetto ad una lama omogenea.

Infine il taglio, inizialmente lavorato per martellatura a freddo, viene sostituito con l’applicazione di una barra d’acciaio puro, riportata e saldata a caldo intorno all’anima o parte centrale della spada, con un processo di saldatura abbastanza complesso da eseguire e quindi successivamente martellato.

Il risultato finale è quello di un’arma flessibile, resistente ed affilata che viene chiamata “Spatha” (nome dal quale deriva la spada). Nella terminologia dell’epoca la “Spatha” si oppone al “Gladium”, nome della spada corta usata dal legionario romano ed alla “semi Spatha” che designa lo “scramasax”, il grande coltellaccio molto in voga nelle tribù germaniche.

Il procedimento di fabbricazione della “Spatha” rimane più o meno costante dal 2° al 10° secolo, cioè fino alla apparizione delle lame fabbricate con la tecnologia detta del “sandwich”.  Quest’ultima tecnica consiste nell’inserire una placca di acciaio duro fra due placche di ferro dolce oppure a fare a seconda dei casi il contrario (una barra di ferro dolce ricoperta da due barre di acciaio duro che, ricoprendo le parti laterali, vanno costituire il taglio della lama).  Durante questi otto secoli cambia solamente la forma della lama: fina e leggera fino all’8° secolo si allunga, poi si allarga verso la base, fatto che impone lo scavo di una gola lungo la faccia per alleggerirla, nella quale si incidono dediche o il nome del fabbricante e l’aggiunta di un pomello massiccio con la funzione di contrappeso.

Le tappe di fabbricazione di una spada lunga

La fabbricazione della lama di damaschino comprende una serie di operazioni di forgiatura di differente complessità. Durante l’alto Medioevo questa fabbricazione è senza dubbio condotta in serie, almeno in qualche decina di esemplari. Gli apprendisti preparano i pezzi più semplici per forgiatura a martello, mentre i mastri ferrai effettuano personalmente le delicate saldature del damaschino ed il fissaggio del taglio di riporto. Vale la pena sottolineare d’altronde che il commercio e soprattutto il traffico delle lame di spada era, in relazione al prezzo del mercato, molto lucrativo. Questo fattore può infatti spiegare la fabbricazione di tali armi su scala media condotta spesso da vere e proprie officine, che disponevano persino di marchi di fabbrica, come Ulfberht (noto dall’850 al 1125), Ingerii (noto dal 925), Leutfrit, Gicelin o Niso  per la maggioranza tedeschi e che, tanto per cambiare, erano già all’epoca oggetto di contraffazione da parte di atelier concorrenti. Molte di queste spade sono conservate in vari musei europei.

Nella fase preparatoria è opportuna realizzare una serie di lingotti di ferro e d’acciaio che vengono successivamente sovrapposti per strati di 5 o di 7) cifre dal valore rituale e funzionale). Questa operazione viene condotta facendo bene attenzione di alternare ogni sfumatura di colore del metallo: gli strati esterni di questo composito sono realizzati in ferro puro poiché questo metallo essendo meno sensibile al calore dell’acciaio, resiste meglio alle elevatissime temperature (tra 1000° e 1200°) necessarie alla saldatura. Il composito viene quindi sottoposto alla saldatura per martellatura. Questa operazione è probabilmente facilitata dall’uso di una pasta di saldatura che permette di eliminare l’ossigeno e la calamina (ossido di forgia) della superfici di contatto. Oggi si utilizza il borace, all’epoca i fabbri utilizzavano la sabbia silicea a base di quarzo oppure un fango argilloso. Va anche sottolineato che i metalli dell’epoca era più facili da saldare grazie alla presenza di scorie incapsulate nella massa e che agivano da fondente.

Una volta che il composito è divenuto perfettamente omogeneo e forma un nuovo lingotto composito, esso viene stirato (allungato) in barre da 60 a 90 cm.. Ogni barra viene ritorta per alternanza di fase in modo da ottenere un valido effetto decorativo; infatti per aumentare la varietà dei disegni la metà delle barre è ritorta in un senso e l’altra metà in senso opposto. Al di là del suo evidente lato estetico questa operazione ha anche la funzione di rinforzare le saldature moltiplicando le superfici di contatto di metalli di differenti sfumature. La barre sono forgiate con una sezione quadrata oppure molate di un terzo del loro spessore. Possono essere anche ritagliate a caldo con un cesello ed in tal caso solo il materiale interno può essere recuperato. Con questo processo supplementare si limitano le perdite di metallo. In ogni caso è prevalente l’uso della sezione quadrata per eliminare il rilievo provocato dall’operazione di torsione. 

A questo punto il mastro ferraio, per realizzare una anima di spada di damaschino, assiema due o tre barre appena lavorate avendo cura di alternare il senso dello spire di torsione. Questo assemblaggio viene allora saldato avendo cura di proteggere il metallo per mezzo di una pasta per saldatura. La riunione di questi elementi fornisce l’anima della spada, parte che serve a fornire il decorativo e la flessibilità alla futura lama. A questo punto il prodotto realizzato viene allungato della lunghezza desiderata oppure di aggiungervi il taglio prima di allungarla.

Il taglio riportato consiste in una barra di acciaio duro (da 0,5 a 0,7% di carbonio) che viene aggiunto su entrambe le parti dell’anima di damaschino. Questa operazione molto delicata viene fatta in due tempi: in una prima fase di pre forgiatura ed in una fase di molitura molto fine. Nella prima fase la barra scaldata alla temperatura minima di saldatura (per evitare di deformare il decoro esterno) vengono saldate per mezzo di una martellatura appropriata (non troppo forte per evitare di deformare l’anima, né troppo debole per saldare) a partire dalla punta o dalla base. Una volta terminata questa fase la spada presenta una sezione rettangolare ed a questo punto  viene effettuata la fase di molitura del taglio della lama, che può essere fatta anche per martellatura nella fase di sgrossatura. La martellatura peraltro oltre che più lunga  presenta delle limitazioni nel suo impiego per il rischio di far saltare le saldature o deformare il disegno (la molitura é l’operazione più rapida ma anche più costosa per forte la perdita di materiale). Dopo una molitura fine per portarla nella sua forma definitiva, la spada viene scaldata fino al rosso ciliegia quindi temprata in modo da indurire l’acciaio (al tempo dei carolingi il raffreddamento avveniva nell’acqua, nell’olio e molto frequentemente nel sangue di montone o di bue, questi ultimi di proprietà analoghe ma decisamente meno costosi dell’olio). L’opzione di raffreddare la lama nel sangue rivestiva forse all’epoca anche una ritualità magica, in quanto attraverso il sangue si voleva trasmettere vita e forza alla futura spada. Tecnicamente è attraverso il processo di tempra che l’artificio di una struttura a damaschino prende tutto il suo valore. In effetti solo parti in acciaio induriscono, quelle di ferro rimangono neutre e questo fenomeno assicura alla lama durezza e flessibilità, proprietà assolutamente impossibili da ottenere da una lama in metallo omogeneo.

Dopo il processo di tempra la lama diviene molto dura, ma allo stesso tempo fragile come un vetro. Ciò implica una ulteriore operazione chiamata di “rinvenimento”. La lama viene rimessa sul fuoco di forgia fino ad arrivare ad una colorazione blù che è l’indicatore della temperatura necessaria a questa fase 2 - 300°). Tale procedimento che tende ad attenuare la tempra ha per scopo di ridurre le tensioni della lama e soprattutto di rendere il taglio meno fragile.

Le ultime operazioni effettuate una volta che la lama è terminata, cioè molitura, pulitura ed affilatura, consistono nel mettere in rilievo la damaschinatura per effetto di un bagno acidulo, il cui scopo è quello di annerire le parti in acciaio. Dopo una pulitura a sabbia, per ottenere una superficie meno scabra la lama viene lasciata per diverse ore in un bagno a base di urina concentrata, di aceto o di altri acidi naturali. Alla fine del trattamento la lama presenta un motivo andato. Il disegno poteva essere nero su argento oppure secondo dei testimoni oculari, rosso su argento. I canali d’acciaio resi visibili attraverso il contrasto dell’acido venivano percepiti come dei vasi sanguigni che irrigavano la lama che apportavano forza e potenza. Inoltre i galloni del damaschino rassomigliavano ad una pelle di serpente. In effetti era molto corrente giocare con la lama facendoci scorrere i raggi del sole, in questo modo si poteva allora vedere il “serpente” muoversi lungo l’acciaio, allontanandosi o avvicinandosi al portatore della spada.

Il prezzo di una spada veniva stimato quindi stimato secondo la natura della sua damaschinatura, non avendo questo elemento unicamente una vocazione estetica: esso traduceva infatti anche la qualità meccanica della lama e questo senza alcuna possibilità di ….. truffa !  Tenendo conto della rilevanza della tecnologia applicata per la sua fabbricazione, una spada era un arma molto costosa e rimpiazzata presso i più poveri, o piuttosto presso i “meno ricchi”, con lo scramasax e quindi all’epoca dei Vichinghi dalla grande ascia a due mani o Breitax, l’arma che equipaggiava i famosi “housescarls” del Re Aroldo di Inghilterra nella sfortunata battaglia di Hastings contro i normanni di Guglielmo il Conquistatore. Ma fornire una idea del prezzo di una spada lunga rimane un problema difficile per l’impossibilità di compararlo con le logiche di valore attuali. In ogni caso si può comunque fornire qualche utile indicazione di riferimento. Una spada poteva valere il prezzo di uno schiavo di “buona qualità”, di tre vacche, oppure di un cavallo per una lama “bellissima”. Sul piano monetario, sebbene questo sia evidentemente variato nel corso degli otto secoli di vita della spada lunga, il prezzo poteva essere di tre soldi d’oro sotto i Merovingi fino a cento grammi d’argento all’epoca dei Vichinghi. Nell’arsenale dei combattenti dell’epoca, solo l’elmetto e soprattutto la cotta di maglia potevano avere un valore superiore, il primo articolo valeva da una volta e mezza a due volte il valore di una spada ed il secondo poteva raggiungere persino il triplo del suo valore.

Bouzy O.   :                   Le armi dall’8° al 15° secolo,             Mergoil,      1990

Bongrain Gilles :           I Coltelli d’arte,                          Crepin Leblond, 2000

Salin Eduard :               La Civilizzazione Merovingia,      A. e J. Picard,    1988

 

[1] Raffreddamento brutale di un acciaio riscaldato a 800° a fine di indurirlo

[2] operazione, diversa dalla ricottura, con la quale si ottiene l’attenuazione dell’effetto di tempra attraverso un riscaldamento dell’acciaio già temprato ad una temperatura più bassa di quella della tempra (200° - 300°)

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