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IACOPI DISCENDENZE E STORIA

Una vita di ricerche per conoscere chi sono.

  

Gli studenti viaggiatori del Medioevo

Gli studenti viaggiatori del Medioevo

(Stampato su “SUBASIO” n. 1/15 del marzo 2007, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi)

Tutta l’Europa é fiera oggi degli scambi organizzati fra le università delle varie nazioni. Ma ci si dimentica che in pieno medioevo numerosi studenti lasciavano le loro famiglie per andare a studiare a Bologna, alla Sorbona, a Padova o a Montpellier. Sfidando i pericoli di un lungo viaggio, il dolore dell’esilio ed, a volte, le privazioni materiali.

 

Nel 13° secolo, lo sviluppo delle scuole urbane dà vita alle università molte delle quali, attraverso la fama dei loro “lettori”, vengono a costituire un faro di aggregazione per molti giovani venuti da lontano. Gli studenti stranieri erano spesso iscritti nel registro delle “Nazioni”, istituzioni specifiche destinate ad inquadrarli ed a soccorrerli, se necessario. La precarietà e l’esclusione restavano comunque il loro premio quotidiano. Fra questi studenti pronti a traversare l’Europa per studiare, i Tedeschi erano certamente i più numerosi. “Che tutti gli studenti che viaggiano per motivi di studio possano spostarsi e permanere in sicurezza. ( …….). Chi non avrà pietà di loro, che, per l’amore della scienza, si sono esiliati, da ricchi sono diventati poveri, senza risparmiare le loro forze ed esponendo la loro vita a tutti i pericoli ?” In questo modo si esprimeva nel 1158 l’Imperatore Federico Barbarossa in una solenne costituzione con la quale forniva diverse garanzie, vantaggi e privilegi ai Tedeschi che partivano per studiare diritto in Italia, costituzione che sarà più tardi estesa a tutti gli studenti dell’Occidente medievale.

Ma é proprio nel 12° secolo, con lo sviluppo delle scuole cittadine, che emerge nelle società europee la figura dello studente (scolaris). La maggior parte di questi erano dei chierici e godevano di privilegi fiscali e giudiziari. Tutti comunque costituivano una categoria a parte nella popolazione medievale, caratterizzata da un proprio modo di vita, dal suo tipo di formazione e da specifiche speranze di carriera.

In effetti le scuole che compaiono sulla scena europea all’epoca e che si specializzano nel campo delle nuove discipline sono abbastanza rare: Filosofia e Teologia a Parigi, Diritto a Bologna, Medicina a Salerno ed a Montpellier. La loro fama si estendeva in tutta l’Europa e dei giovani intellettualmente ben dotati, entusiasti ed ambiziosi, non esitavano ad intraprendere dei lunghi viaggi per venire ad ascoltare i vari e rinomati professori dell’epoca.

Nel 12° secolo queste scuole danno origine alle Università (Studia Generalia), meglio organizzate e strutturate, riconosciute dai Papi e dai Principi, e solidamente provviste di privilegi. Il loro numero aumenta progressivamente: circa 15 alla fine del 13° secolo, principalmente in Italia ed in Francia, 34 agli inizi del 1400 e 66 verso il 1500. Ma queste istituzioni non rappresentavano, in Occidente ed all’epoca, una rete organizzata del sapere, soprattutto ove si consideri che solo qualcuna, come Bologna, Parigi, Montpellier, godevano di una reputazione internazionale, mentre le altre, specie le più recenti, si rivolgevano esclusivamente ad un reclutamento studentesco di tipo regionale.

Normalmente nel medioevo lo studente universitario è raramente originario della città dove studia. In effetti per la grande maggioranza degli studenti il loro villaggio o il loro borgo natale non distava che qualche giorno di marcia dalla loro università. In tali condizioni i sussidi familiari potevano pervenire con una certa facilità.. La lingua, i costumi della città universitaria non risultavano estranei alla loro cultura di origine. Insomma per una buona maggioranza degli studenti il disorientamento o disagio sociale era estremamente limitato.

Ma molti altri venivano, invece, da molto più lontano. Non esisteva nel Medioevo un criterio semplice per definire e catalogare questi “studenti stranieri”. Si possono comunque rilevare diverse caratteristiche generali, i cui effetti normalmente si cumulano: prima di tutto la lontananza geografica, che rendeva difficile dei rientri periodici al loro paese natio e soprattutto l’invio di denaro e l’arrivo di notizie; l’appartenenza di norma ad un altro regno o principato e quindi ad un altro sistema politico e giuridico; la differenza, quindi, della lingua vernacolare (quella parlata all’interno delle loro comunità) e di costumi.

Per tutte queste ragioni lo studente straniero si sentiva effettivamente tale nella città dove si recava a studiare; egli era ugualmente percepito come tale dai suoi maestri, dai suoi compagni di studio e dall’insieme della popolazione della città che l’ospitava, spesso per diversi anni.

Questo sentimento di estraneità era peraltro rinforzato dal fatto che nelle università medievali gli studenti stranieri sono sempre stati poco più che una minoranza. Raramente essi hanno raggiunto il quarto degli effettivi, come nell’Università di Bologna verso la fine del 1200. Altrove, dove la documentazione statistica non risale che al 14° ed al 15° secolo, essi non superano di norma il 10%. Gli stessi dati si possono constatare verso il 1400 anche presso la Sorbona di Parigi, in una epoca, in effetti, dove la Guerra dei Cent’anni ed il Grande Scisma, non incoraggiavano certamente la mobilità studentesca.

Comunque sia, la mobilità studentesca medievale aveva una sua specifica geografia ed una sua cronologia. Dal 12° secolo al Rinascimento, i Tedeschi hanno sempre costituito il grosso degli studenti stranieri europei ed anche se in misura minore molti altri studenti provenivano dai margini settentrionali ed orientali dell’Europa cattolica. Scozzesi, Scandinavi, Polacchi, Ungheresi non esitavano di certo ad intraprendere lunghi viaggi per andare a studiare la Teologia a Parigi o il Diritto in Italia. Ed anche quando, a partire dalla fine del 14° secolo, i loro paesi hanno cominciato a dotarsi di proprie università, questo flusso migratorio si è sempre mantenuto.

Gli Inglesi, che, nell’11° e 10 secolo, erano abituati ad attraversare la Manica, per studiare specialmente a Parigi, nel 14° secolo scompaiono quasi completamente con lo sviluppo oltre Manica delle Università di Oxford e di Cambridge e gli Spagnoli, che numerosi si recavano a studiare diritto a Bologna prima del 1300, nel periodo successivo diventano più rari, per effetto delle guerre del medioevo, del contemporaneo sviluppo delle università iberiche e francesi quali, Salamanca, Lisbona e Tolosa e dell’ascesa dei sentimenti nazionali.

Gli Italiani, proprio per la loro maggiore disponibilità di istituti di formazione presenti, sono stati i meno interessati a questo flusso migratorio internazionale, se si eccettuano peraltro i numerosi francescani e domenicani, come ad esempio un Tommaso d’Aquino o un Bonaventura da Bagnorea o Bagnoregio, che i loro rispettivi ordini inviavano a studiare alla Sorbona.

In effetti in Italia gli studenti trovano a ragionevole distanza tutto quello di cui avevano bisogno in materie d’istruzione, Bologna, Perugia e Padova per il Diritto; Salerno per la Medicina.

Con qualche rara eccezione (vedasi l’Imperatore Federico 2° che obbliga nel 1124 gli studenti del Regno di Sicilia a frequentare lo Studium napolitanum), le autorità medievali incoraggiavano la mobilità studentesca. Le università, di cui quali il Papato garantiva gli statuti ed i privilegi, erano una istituzione di Cristianesimo. Un po’ dappertutto si insegnavano gli stessi programmi, tratti dal fondo comune della cultura occidentale (Aristotele, la Bibbia, il diritto romano). Ovunque venivano utilizzati gli stessi metodi pedagogici e venivano rilasciati gli stessi diplomi. Ovunque infine il latino, una lingua che tutti gli studenti avevano appreso nelle scuole locali prima di partire per l’Università, era la lingua dell’insegnamento ed anche la lingua usuale della comunicazione nel mezzo universitario.

Le autorità laiche non restavano a guardare e normalmente garantivano agli studenti, nel solco della grande tradizione del Barbarossa, il mantenimento o il prolungamento dei privilegi concessi, sia in tempo di pace che in tempo di guerra, quali l’esenzioni fiscali, l’immunità giudiziaria (gli studenti erano soggetti solo alla giurisdizione dei tribunali ecclesiastici).

Nelle grandi Università, per lo meno, gli studenti stranieri non erano totalmente abbandonati a sé stessi, fermo restando il fatto che essi di norma non erano sprovvisti, né di mezzi, né di ambizione. Per intraprendere un lungo viaggio e restare per molto tempo all’estero (gli studi duravano in media non meno di cinque anni), occorrevano delle risorse familiari o personali, delle amicizie, oltre naturalmente a coraggio, audacia e determinazione. Essi erano in genere di origine agiata, spesso nobili. Essi viaggiavano in gruppo, a volte accompagnati da servitori. Una volta giunti sul luogo essi spesso ritrovavano, fra gli studenti e persino i maestri, dei loro compatrioti che li accoglievano e non di rado li ospitavano.

Molto rapidamente appaiono delle istituzioni specifiche per venire in loro aiuto. Le più importanti erano le “Nazioni” studentesche, ricordate presso i giuristi di Bologna già dalla fine del 12° secolo. Indubbiamente dei gruppi inizialmente spontanei, queste “Nazioni” avevano i loro ufficiali, le loro assemblee, la loro cappella e le loro feste. Cooperando anche al buon funzionamento dell’Università, esse erano allo stesso tempo per i loro membri, strutture di accoglienza e di controllo. Disponevano di un servizio di corrieri che permetteva agli studenti di rimanere in collegamento con la loro regione d’origine.

Spesso sembra persino che gli studenti si iscrivessero nella scuola di un “lettore” della loro stessa nazione. A Bologna sono esistite fino a diciassette “Nazioni ultramontane” e la Nazione Germanica era di gran lunga la più importante.

A Parigi in una epoca più o meno coeva esistevano appena quattro nazioni: Francia, Normandia, Piccardia ed Inghilterra. Solo quest’ultima (che a partire dal 14° secolo era composta essenzialmente da studenti scozzesi, olandesi, tedeschi e scandinavi) era considerata veramente come una “nazione straniera”.

L’iscrizione ad una Nazione era obbligatoria. Il tipo di alloggio per contro dipendeva dagli stessi studenti. Quelli che ne avevano i mezzi potevano da soli o insieme ad altri, affittare una camera, un piano di una abitazione o addirittura una casa. Altri invece prendevano pensione presso un “lettore” della loro nazione o chiedevano un aiuto dalla loro città di origine. Esisteva nella città di Ypres una confraternita di vecchi studenti, che forniva delle borse di studio a favore di giovani fiamminghi, partiti per studiare a Parigi. Una piccola minoranza di studenti (in teoria i più poveri) erano ospitati in un collegio, che forniva loro da vivere, il convento, una biblioteca ed a volte delle lezioni.

Fra i numerosi collegi fondati nelle università medievali, certuni furono dei collegi nazionali, destinati a questa o quella categoria di studenti stranieri. Il più sontuoso ed organizzato è stato il Collegio degli studenti spagnoli a Bologna (1364). Ma se ne possono ricordare almeno sette a Parigi: Collegio di Costantinopoli per i Latini d’Oriente (1204), Collegio di Dacia per i Danesi (1275), Collegio d’Upsala, di Skara e di Linkoping per gli Svedesi (rispettivamente, 1285, 1292 e 1317), Collegio dei Lombardi per gli Italiani (1334), Collegio dei Tedeschi (1345 circa).

L’esistenza di Nazioni e di Collegi nazionali non erano però sufficienti a mettere gli studenti in salvo da tutte le difficoltà decorrenti dalla loro origine lontana e questo è testimoniato da alcune corrispondenze, da testimonianze letterarie e da procedure giudiziarie. La lontananza geografica molte volte generava nostalgia ed inquietudine, perché le notizie arrivavano con il contagocce e qualsiasi problema di carattere familiare poteva portare a considerare un ritorno al loro paese attraverso un viaggio lungo, costoso e forse pericoloso.

Precarietà ed incertezza del domani erano il peso quotidiano della lontananza. Infatti l’arrivo dei sussidi attesi era quasi sempre aleatorio, fatto che obbligava a chiedere in prestito o alla richiesta di riduzioni o dilazioni di pagamento, compresi anche i diritti da pagare per la frequenza o per dare un esame. I corrieri delle “Nazioni” o gli stessi studenti potevano essere attaccati lungo il cammino o vittime di doganieri troppo zelanti, che non di rado procedevano al sequestro dei beni o all’applicazione di multe. Recuperare poi i beni o le somme ingiustamente sottratte o pagate era un affare, anche con l’appoggio dell’Università, una impresa decisamente delicata.

A queste difficoltà materiali si aggiungeva un clima a volte pesante. Il primo problema era quello della lingua. Certamente si poteva parlare in latino, ma nella vita di tutti i giorni gli studenti stranieri parlavano fra loro nella loro lingua d’origine. A Parigi in particolare, il fatto di parlare molto male il francese li condannava a rimanere nell’ambito del loro gruppo, conducendoli all’isolamento. Questo tipo di comportamento li metteva in cattiva luce agli occhi del popolino, degli artigiani, dei tavernieri, dei sergenti, moltiplicando in tal modo le occasioni di malintesi e di conflitto. Dall’incomprensione era quindi molto facile passare al disprezzo e da questo alla xenofobia.

Sempre a Parigi i membri della Nazione chiamata “Inglese” si lamentavano di essere oggetto di disprezzo da parte degli altri e di essere sempre posti fra gli ultimi. Fatto ancora più grave che al primo scatenarsi di un litigio, le insinuazioni e gli insulti di tipo xenofobo scorrevano a fiumi. I documenti o le cronache dell’epoca ce ne forniscono ampia testimonianza: di fatto nei tafferugli fra studenti, ma anche con i borghesi o con i sergenti, gli stranieri vi erano quasi sempre implicati.

Nella Cronaca di Jacques de Vitry, dell’inizio del 13° secolo, gli studenti stranieri hanno già la reputazione di “Mangioni”, “uomini sanguinari” e di “persone furiose”. Dal 1424 al 1439, un lungo processo oppone l’Università di Parigi ad un maestro d’arti Paolo Nicolai della Schiavonia, un Croato della Diocesi di Zagabria. A prescindere dall’oggetto della causa, tra l’altro molto ingarbugliata, quello che è interessante notare è proprio il fatto che il predetto maestro si lamenti con forza delle assurde calunnie suscitate contro di lui, a causa delle sue lontane origini balcaniche; tra le tante calunnie lo riferivano membro della setta eretica dei Bogomili o di quella dei Greci scismatici.

Incidenti di questo genere erano molto frequenti e certamente gli stessi si sono senza dubbio moltiplicati verso la fine del Medioevo con lo sviluppo delle monarchie nazionali e la nascita del sentimento patriottico, fomentato anche dalle guerre e dai ripetuti scismi religiosi. Le “Nazioni” perdevano spesso la loro tradizionale neutralità, tanto che nel 1470, Luigi 11° di Francia, farà espellere da Parigi tutti gli studenti sottoposti alla giurisdizione del suo nemico Carlo il Temerario di Borgogna.

Ma gli studenti stranieri non si lamentavano solamente della xenofobia degli autoctoni, molto spesso scoppiavano delle contestazioni e delle risse fra gli stessi stranieri che trasponevano nel loro piccolo mondo universitario le dispute nazionali (Scozzesi contro Inglesi; Danesi contro Finlandesi, Tedeschi contro Croati, ecc.).

Ma non bisogna per questo trarre da tutti questi episodi, spesso isolati, un quadro troppo nero della situazione. Le corrispondenze di Jean de Jeinszstein, futuro arcivescovo di Praga o del canonico svedese Jean Hildebrandi, entrambi studenti alla facoltà di teologia della Sorbona verso la fine del Medioevo, ci mostrano degli studenti pieni di ammirazione e di gratitudine per le università che hanno visitato nella loro vita di studenti. Se molti studenti stranieri, una volta laureati rientravano in Patria, molti di loro sceglievano, per contro, di rimanere sul posto e di percorrervi la carriera universitaria.

Nel 15° secolo il più celebre professore di medicina dell’Università di Montpellier, il Cancelliere Giacomo Rotschild, detto “Angeli”, veniva dalla lontana Kolberg in Pomerania.

In ogni caso la popolarità fornita da un viaggio di studio all’estero, a parte i luoghi comuni e le difficoltà del vivere in terra straniera, era comunque per quei tempi la naturale risultante della fierezza di aver viaggiato in paesi lontani, di aver frequentato colleghi di tutte le origini, di aver ascoltato celebri maestri e di avere soprattutto ottenuto un diploma prestigioso.

La seconda metà del 15° secolo, con un contesto generale più favorevole (ripresa economica, relativa riduzione delle guerre e delle epidemie), torna a dare un nuovo impulso a questo fenomeno sotto forme diverse. Sviluppo per certi aspetti paradossale, ove si consideri che era ormai decisamente molto più facile trovare nel proprio paese l’università di cui si poteva aver bisogno.

Ma il fenomeno che si sviluppa a quel tempo assomiglia per certi aspetti alla “peregrinatio accademica moderna. Non si tratta più solamente di partire per andare a studiare in una università lontana e famosa, ormai si desidera visitare in successione, spesso per breve tempo, diverse università, studiando in alcune ed ottenendo dei diplomi nelle altre (meno esigenti); peregrinazione che rendeva anche possibile la moltiplicazione delle nuove fondazioni.

La grande novità è anche segnata dal fatto che, mentre in Francia le Università di Parigi e di Montpellier riescono a stento a mantenere un certo grado di attrazione, è ormai l’Italia, l’Italia del Rinascimento, che si impone nel mondo occidentale come il maggiore centro di attrazione culturale ed il maggior polo delle migrazioni studentesche. Il richiamo dell’Umanesimo (anche se questo investiva solo parzialmente la vecchia istituzione universitaria), il desiderio di visitare i monumenti antichi, le accademie ed i corsi tenuti nella penisola, diventavano fra le motivazioni essenziali per la nuova classe di studenti viaggiatori.

Anche stavolta la maggioranza di questi studenti è di origine tedesca o dell’Europa Centrale e Settentrionale, ma accanto a loro, alla fine del 15° secolo, gli Inglesi, i Francesi e gli Spagnoli ritrovano la via delle università italiane: non solamente Bologna e Padova, ma ora anche Pisa o Roma.

Nel 12° secolo, a prestar fede ai riferimenti contenuti nella costituzione concessa dal Barbarossa, solo il gusto austero del sapere e l’ambizione del diploma potevano giustificare e consentire di accettare ed affrontare, per studiare lontano, i pericoli della strada, l’ostilità delle popolazioni e l'amarezza dell’esilio volontario. Mentre alla fine del 15° secolo a queste motivazioni di tipo intellettuale si vengono ad aggiungere l’attrattiva della scoperta, la curiosità per le cose da vedere, la simpatia per gli uomini incontrati.

Lo studente straniero del Medioevo diventa in tal modo l’antesignano della figura dell’umanista moderno.

Bibliografia

 

MONNET et VERGER, “Heurs et malheurs de l'étudiant étranger au Moyen Age”, “L'Étranger au Moyen Age”, Paris, Pubblicazione della Sorbona, 2000, pp. 217-232.

RIDDER SIMOENS (dir.), Universities in the Middle Ages, vol. 1° da “A History of the University in Europe”, Cambridge University Press, 1992, pp. 280-304.

TANAKA v, La Nation anglo-allemande de l'université de Paris au Moyen Age, Paris, Aux Amateurs de livres, 1990.

VERGER J., “La mobilité étudiante au Moyen Age”, Histoire de l'éducation n° 50, 1991, pp. 65-90

Gli ufficiali venuti dalla … gavetta

GLI UFFICIALI VENUTI DALLA … GAVETTA

(Pubblicato su Rassegna Militare dell’Esercito n. 4/2005)

Sempre ai margini, talvolta detestati, sono dei dilettanti, spesso superiori ai professionisti della guerra. Uno sguardo ad un tipo di attore del campo di battaglia meno noto.

Sappiamo tutti bene che cosa è un ufficiale di “fortuna” o “di ventura”. Ma ne sappiamo un po’ meno di quelli venuti dalla … “gavetta”. Di ufficiali di “fortuna” ne troviamo un pò in tutte le epoche della storia. Si tratta di personaggi qualificati, diplomati presso scuole militari e con una certa esperienza di guerra che mettono la loro spada e la loro esperienza al servizio di un principe o di uno stato, per desiderio di guadagno, per desiderio di avventura oppure, più semplicemente, per servire una determinata causa. Ci si riferisce agli Svizzeri che sono stati nel tempo al servizio dei differenti sovrani d’Europa o quegli ufficiali di origine diversa che divennero consiglieri di eserciti di altre nazioni. Il colonnello francese Lebois Mareuil che divenne generale dei Boeri; il prussiano von Moltke, futuro Feldmaresciallo, che servì nell’esercito turco; il tedesco von Meckel istruttore dell’esercito giapponese prima del 1905, il venezolano Rafael De Nogales, futuro generale che, durante la 1^ Guerra Mondiale, servirà onorevolmente i Turchi e per fare qualche esempio in casa nostra, il generale Charnowskj, tristemente noto per la sconfitta di Novara, i colonnelli, poi generali polacchi, Csudafy Wunder di Wunderburg, Isensemid de Milbitz e Poninskj, l’ungherese Turr, l’austriaco Hang e tanti altri fra i quali gli stessi generali Manfredo Fanti, Enrico Cialdini, Vincenzo Roselli, Giuseppe Avezzana, Ignazio Ribotti di Molieres e Giovanni Durando. Questi ufficiali sono tutti dei professionisti del mestiere delle armi. Questi sono uomini provenienti ed appartenenti ad una stessa categoria e quindi riconosciuti come tali anche dai loro pari.

Per contro gli ufficiali che vengono dalla “gavetta” appartengono ad una categoria differente, senza essere mai passati attraverso alcuna “trafila” classica, senza aver mai frequentato caserme o scuole di guerra, essi riescono comunque ad arrivare ai più alti livelli di comando o arrivano persino a giocare un ruolo significativo come consiglieri dei comandanti. Se si dovesse mettere tale categoria sotto la protezione di qualche santo questo potrebbe essere individuato in …. Giovanna d’Arco. Della Pulzella d’Orleans il Duca d’Alençon, suo compagno d’armi, diceva tranquillamente che “ … era talmente esperta di cose militari e di guerra come lo sarebbe stato un capitano con una pratica e l’esperienza di almeno 20 – 30 anni.

Lo svizzero Antonio Enrico Jomini, illustra in modo emblematico quello che si vuole definire un venuto dalla gavetta. Da ragazzo si dice che sognasse delle battaglie e in seguito è riuscito a trasporre i sogni nella vita. Nell’analizzare i successi di Napoleone egli arrivò a penetrarne alcuni arcani delle strategie. Ingaggiato dal Maresciallo Ney nel suo stato maggiore, gioca il ruolo di consigliere e redige numerose opere di strategia e di storia militare. Lo stesso Napoleone si dimostrò impressionato dalla sua sagacia. Nominato Generale di brigata, poi di divisione, passa successivamente al servizio dei Russi nel 1813, considerandosi vittima di ingiustizie. Ricevuto a braccia aperte dallo Zar Alessandro 1° egli divenne il suo stretto consigliere e continuò ad esercitare tale carica anche con lo Zar Nicola 1°. Pur tuttavia la biografia dello Jomini mostra evidenti le difficoltà che incontra un ufficiale venuto dalla gavetta. Non facendo parte della “casta”, egli scatena le gelosie e subisce l’ostilità dei generali e degli ufficiali di stato maggiore provenienti dalle scuole militari o dalle accademie. Egli sarà di fatto ostaggio delle seccature e dei dispetti del Capo di Stato Maggiore del Principe di Schwarzemberg (il conte Radetskj von Radetz) e di altri che si risentivano e si indispettivano all’ascolto dei consigli di questo ufficiale che .. “veniva dal nulla e che soprattutto non aveva mai combattuto”. Qualche decennio più tardi la storia si ripete con Giuseppe Garibaldi, eroe della nostra indipendenza, generale ma anche ammiraglio venuto dalla gavetta, che dovrà urtarsi e subire l’ostracismo degli ufficiali provenienti dalle Reali Accademie preunitarie. Ma oltre a Garibaldi non possiamo fare a meno di citare qualche altro personaggio significativo di questa categoria quali ad esempio Nino Bixio, Luigi Masi, Giacomo Medici del Vascello, Giacomo Durando, Emilio Sacchi, Carlo Zucchi e Domenico Cucchiari. Di fatto nell’esercito italiano degli inizi esisteva in effetti anche una frattura di casta fra quelli provenienti dalle Accademie (Torino, Napoli, ecc.) e quelli venuti dalla gavetta, oltre a quella strutturale fra piemontesi e gli altri.

Nella maggioranza dei casi questo tipo di ufficiale risulta animato dalla ambizione e dalla passione per le cose militari. Me ne esistono anche degli altri che risultano puro effetto delle circostanze, come ad esempio quello del capitano prussiano di lungo corso in pensione, Joachim Nettelbeck. Questi, nel 1807, in occasione dell’assedio francese di Colberg sul Baltico, davanti alla manifesta incapacità del comandante della piazza, prende la decisione di assumersi la responsabilità in prima persona di organizzare la difesa e di impostare dei contrattacchi con un evidente senso tattico e soprattutto a dispetto dei suoi 70 anni. Il successo delle sue azioni valse al Nettelbeck il rispetto del popolo tedesco fino ai tempi moderni, come esempio di coraggio civico ma il suo caso è la prova evidente che la parte più elevata del mestiere militare può essere accessibile anche a chi non seguito il percorso classico di formazione.

La Guerra di Secessione americana è stata, sotto questo punto di vista, uno degli episodi che ha visto in maggior misura il verificarsi di tale fenomeno. Ma il fatto non deve sorprendere. Con il notevole incremento degli eserciti, verificatosi in un ristretto lasso di tempo, la domanda di ufficiali e di comandanti diviene sempre più pressante ed in questa situazione gli uomini più intraprendenti, ma spesso anche quelli che erano spinti da fazioni politiche, hanno l’opportunità di accedere ai più alti livelli di comando. Fra i tanti esempi che si potrebbero fare vale la pena di ricordare il più conosciuto, il futuro presidente degli USA, James Abraham Garfield, assassinato nel 1881. Questi, senatore repubblicano dell’Ohio, costituisce d’iniziativa un proprio reggimento, poi, comandando la propria unità, si accultura professionalmente, leggendo numerose opere di tattica e di strategia. Sul terreno darà in effetti ampia dimostrazione di essere un eccellente tattico. Dal lato sudista il brigadiere generale Pendleton, comandante dell’artiglieria del generale Lee nella battaglia di Malvern Hill, era un pastore protestante della chiesa episcopale. Ma evidentemente non tutti gli ufficiali venuti dalla gavetta sono destinati al ….  successo ! Il brigadiere generale Banks, brillante politico ed ex governatore del Massachussets, comanda, a dispetto di una ignoranza quasi assoluta delle cose militari, una importante unità nello Shenandoah e si fa battere vergognosamente.

Senza dubbio il peggiore e forse perché più conosciuto di questa categoria di ufficiali è stato il tiranno paraguaiano Solano Lopez. Suo padre, che era Presidente della Repubblica, lo nomina nel 1845, a soli 18 anni, Ministro della Guerra e comandante dell’esercito. Dopo aver letto un certo numero di opere di soggetto militare, egli arriva alla convinzione di essere un grande capo militare dei tempi moderni. Riorganizzato e rinforzato l’esercito e sviluppato un nucleo di industria degli armamenti, sulla base di tali premesse decide di estendere la dominazione del Paraguay a tutta l’america del sud. Scontrandosi con Brasile, Argentina e l’Uruguay, le sue truppe, fortemente ideologizzati, lottano per sette anni in una serie interminabile di sconfitte e tutto questo nonostante il ”genio militare”, evidentemente incompreso, del loro capo, che trova la morte in combattimento nel marzo 1870, insieme al suo figlio di 15 anni. Quest’ultimo con il grado di colonnello e di Capo di SM può essere considerato, per la cronaca, il più giovane ufficiale di questa categoria, mentre suo padre può essere annoverato anche fra i capi più sanguinari di questa stessa categoria, avendo provocato la morte di ben 350 mila paraguaiani.

Nel 19° secolo  ed agli inizi del 20° la Cina, con le sue lotte intestine, divenne un terreno privilegiato di espressione di questo tipo di ufficiali, di estrazione prevalentemente americana o russa.  L’americano Ward  nato a Salem nel 1841 ed il cui padre gli aveva impedito di entrare nell’Accademia di West Point, si mette, dopo una esistenza avventurosa, al servizio dei ricchi mercanti di Shanghai i quali lo incaricano di organizzare un esercito di mercenari per lottare contro i Taipeh che minacciano la città. Divenuto cittadino cinese, generale di brigata e mandarino di 3^ Classe, ottiene sul campo degli importanti successi ma viene ucciso, a trent’anni, durante l’attacco ad una fortezza tenuta dagli insorti. Qualche giorno dopo la sua morte il North China Herald riportava: “Senza alcuna formazione militare Ward dette prova, in numerose occasioni, delle qualità di un generale in capo”. Ancora più curioso è il destino del californiano Homer Lea. La sua deformità di nano gobbuto, gli aveva impedito di entrare in una accademia militare ma si era concentrato da autodidatta sullo studio dei teorici dell’arte militare. Avendo preso contatto con i Cinesi della costa dell’ovest, favorevoli al movimento di riforma che si sviluppava nel Paese, riesce a convincerli delle sue qualità di stratega e viene inviato nel 1900 in Cina per una missione, a dire il vero molto misteriosa. Rientrato in California egli fonda la Western Military Academy di Los Angeles con il compito di formare i cadetti cinesi. Più tardi, entrato nel seguito di Sun Yat-Sen, ne diviene il consigliere per gli affari militari prima di morire a 36 anni. Fra le sue diverse opere una in particolare, “Il Valore dell’Ignoranza”, del 1909, conobbe un immenso successo. Fra l’altro vi aveva anticipato una guerra fra Giappone ed USA, a partire da un raid sulle Hawaii, una Pearl Harbour ante litteram.

Anche durante il 20° secolo si sono segnalati casi di ufficiali di questa categoria di uno spessore considerevole. Durante la guerra civile russa, nel 1920, l’anarchico Nestor Makhno si dimostra, opposto al generale Denikin, un eccezionale capo guerrigliero. Egli avrà un emulo nel 1936 in Spagna con Durruti. Sempre in Russia Trotskj, nonostante la mancanza di una formazione militare, diviene un organizzatore dell’Armata Rossa di grande talento. Lo stesso commento si può fare anche per T. E. Lawrence (1888 - 1935), organizzatore e stratega efficace della rivolta degli Arabi dell’Hegiaz contro i Turchi.

Siamo peraltro convinti che l’avvenire, anche se così denso di conflitti convenzionali, non lasci più molto spazio a vocazioni di questo tipo, laddove si consideri che negli scenari delle guerre moderne l’impiego di tecnologia è diventato ormai primordiale e che l’improvvisazione o la formazione autodidatta non sono più sufficienti a supplire le carenze cognitive anche di personaggi indubbiamente dotati e carismatici.

Gli Ussari. Il terrore dell'Est

Gli Ussari

Il terrore dell'Est

 

(pubblicato in due puntate su RIVISTA di CAVALLERIA n. 4 e 6/2005 del luglio e settembre 2005)

 

Mentre nell’Europa occidentale i cavalieri scompaiono progressivamente e la cavalleria é rimpiazzata dalla fanteria, ad Est viene creata invece una nuova formazione di cavalleria che concorrerà a rivoluzionare la tattica d’impiego delle forze montate.

Gli Ussari polacchi e lituani, che appartengono alla cavalleria pesante dal 16° al 18° secolo, sono in effetti poco conosciuti al di fuori delle frontiere della Polonia. Tutto questo nonostante il fatto che essi ebbero grande rinomanza anche in occidente allorché in numerose battaglie sconfissero sempre il nemico superiore di numero, infliggendogli forti perdite. Durante la battaglia di Lubeszow, del 1577, in cui 2500 soldati polacchi affrontarono da 11 000 a 12 mila borghesi di Gdansk. è un esempio idoneo per dimostrare che la maggioranza delle perdite si verificano non durante la battaglia (urto e scontro frontale) ma dopo la stessa (durante la fase di inseguimento del nemico). Le perdite polacche totalizzano 58 morti e 130 feriti, oltre a 38 cavalli morti e 65 feriti. Le perdite del nemico assommarono da 4000 a 5000 uomini, in gran parte dovute alla fase di inseguimento. Queste statistiche sono tipiche delle battaglie dell’epoca. Di fronte alla cavalleria polacca le perdite del nemico furono sempre considerevoli. La proporzione di 1,5 fra cavaliere e cavalli colpiti è specifica non tanto perché è la stessa sia fra i Polacchi che gli Ungheresi ma perché deriva anche dal fatto della superficie di esposizione del cavaliere e del cavallo all’azione nemica che è rispettivamente del 40% e del 60% della superficie totale esposta. Anche da questo ulteriore elemento si può dedurre che il cavallo era 1,5 volte più suscettibile di essere colpito rispetto al cavaliere.

Nel 1610, nel corso della battaglia di Kluszin, 6.800 soldati polacchi (dei quali 5.500 Ussari) sconfiggono, aprendo le porte del Cremlino al Re di Polonia - 30 mila Moscoviti, un gran numero di Svedesi ed un contingente di mercenari al loro soldo. Ma certamente il fatto più significativo per l’Occidente fu la loro partecipazione, sotto la guida di Sobieski, alla Battaglia per la liberazione di Vienna nel 1683 (quando l’Europa Cristiana era sull’orlo della catastrofe). Attorno all’assedio di Vienna si tramanda in particolare un episodio emblematico: nel corso della carica degli Ussari “alati” polacchi - cavalieri che, in effetti, innalzavano sulla schiena lunghe ali bianche - contro il grosso della fanteria turca, questa li scambiò per angeli, dandosi a precipitosa fuga a dispetto dell’immensa disparità numerica. (l’adozione delle lunghe ali serviva ad impedire l’uso dei lazos da parte dei Tartari).

Tuttavia anche gli esperti militari non conoscono a fondo questo corpo d’elite della cavalleria pesante. Quello che é particolarmente interessante e pieno di fascino negli Ussari é proprio la loro straordinaria serie di successi ottenuti in diverse battaglie. Nei loro primi 120 anni d’esistenza, gli Ussari polacchi hanno vinto in quasi tutte le battaglie cui hanno partecipato, nonostante la superiorità numerica del nemico (fino a 5 volte superiore). Con questo lavoro s’intende esaminare le cause e le ragioni del successo degli Ussari e le loro tattiche di combattimento.

Il perché delle vittorie degli Ussari

Il ruolo principale degli Ussari era quello di sviluppare un potente attacco in modo da caricare e disarticolare la formazione nemica. E’ bene rilevare che questa carica era il più delle volte studiata a tavolino e quindi pianificata in anticipo. In effetti, la cooperazione con le altre armi (fanteria, artiglieria ed altri tipi e formazioni di cavalleria) era di fondamentale importanza per la riuscita dell’azione. Appare comunque naturale domandarsi in che modo gli Ussari riuscivano a disarticolare le compatte formazioni della fanteria dei paesi dell’Europa occidentale, dei veri e propri quadrati serrati, irti di picche e protetti dal fuoco dei moschetti ed anche dei cannoni. Come era possibile che questa fanteria, che appena qualche secolo prima era in condizione di infrangere le cariche dei cavalieri, si trovasse ora in scacco sotto gli attacchi degli Ussari ? In effetti la cavalleria se voleva superare dei soldati di fanteria armati di picche e di moschetti, doveva necessariamente possedere delle armi adeguate alle necessità. E la principale arma degli Ussari contro la picca era una lancia speciale, certamente non quella medievale, ma piuttosto un nuovo tipo di lancia molto lunga, impiegata per di più in maniera nuova ed originale.

 

La formazione iniziale prima dell’ingaggio in combattimento

Durante una battaglia, la fanteria veniva disposta in genere a ventaglio ed in formazione poco profonda rispetto alle formazioni dell’inizio del 16° secolo. Alcuni quadrati di fanteria erano composti fino a 50 per 50 righe e colonne e comunque una formazione di 10 per 10 era il minimo considerato. Nel periodo successivo viene adottata una formazione poco profonda da 6 al 10 righe che aveva il vantaggio di consentire una maggiore partecipazione degli uomini delle prime righe durante il combattimento e soprattutto di disporre di una maggiore flessibilità a livello di manovra del quadrato. I moschetti venivano coperti da almeno tre righe di picche e le altre tre righe a tergo avevano lo scopo di supplire con la loro azione alla debole cadenza di tiro dei moschetti, forse un tiro ogni due minuti. Il numero di righe di picchieri andava comunque progressivamente riducendosi rispetto a quelle dei moschettieri, in modo da schierarne col passare del tempo esclusivamente un numero sufficiente e necessario per contenere le cariche di cavalleria. Tale proporzione arriverà quindi alla proporzione di due picchieri contro un moschettiere fino al rapporto di 1 ad 1 e talvolta di meno. Per poter mantenere un tiro continuo, veniva utilizzata una tattica di fanteria chiamata “Contromarcia”. Ogni rango faceva un passo avanti e tirava, mentre le righe a tergo ricaricavano i moschetti. La riga  anteriore dopo il tiro passava a tergo per ricaricare. La sola esigenza necessaria era quella di poter mantenere uno spazio fra le colonne in modo da consentire la contromarcia. Quando questo sistema funzionava, la formazione poteva produrre un tiro continuo ogni 15 - 20 secondi, mentre una sola riga aveva bisogno di almeno due minuti per ricaricare correttamente.

Le picche coprivano i moschettieri solamente in caso di pericolo proveniente da una carica d’elementi di cavalleria

La distanza fra le colonne di fanteria era di norma di 1 metro e 50. Questo intervallo permetteva uno spazio libero adeguato per le operazioni di  ricarica, ma consentiva anche l’agevole passaggio delle righe a tergo una volta effettuata la prima salva. Le picche coprivano i moschettieri solo in caso di pericolo proveniente da cariche di cavalleria o di picchieri. Una formazione standard poteva pertanto essere composta da uomini disposti su 9 -10 righe con degli spazi fra le colonne ed un reggimento di 600 uomini con una proporzione di picchieri/moschettieri di circa 1 a 1, occupava di norma una fronte di circa 100 metri.

Una bandiera di Ussari (cioè un’unità di cavalleria) si schierava su tre o quattro righe di combattimento. La distanza fra i cavalli era equivalente almeno a quella della larghezza di un cavallo. Questo spazio consentiva:

- l’inversione di marcia in modo da interrompere in qualsiasi momento la carica della cavalleria senza rompere i ranghi;

- la possibilità di scartare qualsiasi ostacolo inatteso, quali barriere, ferito o corpi sul suolo;

- un riferimento generico per consentire più facilmente il mantenimento della formazione;

- un sistema per passare attraverso la cavalleria avversaria durante la carica.

Gli Ussari erano di norma separati fra le righe da circa 4 metri di distanza (200 uomini su quattro righe). In prima fila, la posizione d’onore era quella degli Ussari “compagni d’arme”, mentre i "servitori" seguivano nelle colonne dietro di loro. Ovviamente la prima linea era esposta ai tiri della fanteria e le righe successive risultavano almeno inizialmente protette dal tiro frontale.

La carica

Come si sviluppava la carica ? In condizioni ideali gli Ussari caricavano da una distanza di 375 metri. I primi 75 metri si effettuavano al passo, i 150 seguenti al trotto, poi al piccolo trotto e progressivamente sempre più veloci negli ultimi 60 metri. La prima fila procedeva al piccolo trotto forse per (far serrare) raddoppiare i ranghi.  Lo scopo era quello di preservare la forza dei cavalli che poteva scemare rapidamente. Il metodo della carica era strettamente legato alla portata effettiva delle armi da fuoco e la potenza d’impatto di una bandiera era in funzione della densità della sua formazione. Indubbiamente era più facile mantenere la formazione al passo che al galoppo. Il contatto simultaneo della fronte era decisamente più importante contro un quadrato nemico di picchieri. L’impatto massimo della carica poteva essere ottenuto grazie all’entrata in combattimento della seconda fila, quando questa raggiungeva la prima. Questa azione consentiva di compensare le perdite della prima linea, ma ancora molto più importante, dopo il rinforzo (o raddoppio) della prima linea, la distanza fra le righe scendeva da tre ad 1 metro, accrescendo in tal modo la densità globale al momento dell’impatto.

La larghezza della fronte di una bandiera, intorno al 130 - 140 metri, era maggiore di quella dei coevi reggimenti di fanteria (100 metri). Questa predisposizione consentiva a qualche ussaro di attaccare i fianchi della fanteria, che sono notoriamente più fragili, specialmente quando entrambi sono attaccati allo stesso tempo. Nel nostro caso gli Ussari avevano la capacità di spezzare una formazione nemica con questo tipo d’impatto. Grazie alla loro lancia, gli Ussari potevano attaccare i picchieri prima che le picche di quest’ultimi arrivino a toccare i loro cavalli. Tuttavia se gli Ussari riescono a distruggere la prima fila di picchieri, altri due file si alternano in successione per difendere i moschettieri. Come facevano gli Ussari a superare questo muro di lance ? In primo luogo gli Ussari avanzavano in formazione serrata cosa che consentiva loro di non trovarsi in inferiorità numerica rispetto ai picchieri. Dopo l’urto iniziale, diverse lance degli Ussari erano ancora intatte e consentivano quindi di proseguire l’attacco sulla seconda linea di picche con la stessa efficacia. In secondo luogo le lance, anche se rotte o spezzate, potevano ancora raggiungere la lunghezza di due o tre metri ed anche se non erano letali, potevano comunque provocare gravi ferite. In terzo luogo un potente attacco condotto da cavalieri armati di queste lance, poteva gettare un uomo indietro e contribuire a scompaginare la riga successiva. In quarto luogo la possibile penetrazione della linea di picchieri poteva contribuire ad arretrare la formazione nel suo complesso. Da ultimo un secondo assalto era immediatamente effettuato dalle linee di Ussari a tergo.

Tutti questi fattori combinati giocano ognuno un loro ruolo specifico, ma l’effetto di gran lunga più importante era quello di ottenere comunque la penetrazione della formazione avversaria, la sua perdita di coesione e quindi la sua disarticolazione.

La potenza di fuoco secondo le cronache polacche

L’arte della guerra dei paesi occidentali era ormai decisamente orientata a sfruttare principalmente la potenza di fuoco. E’ pur vero che uno scudo di picche, che proteggeva i moschettieri dalle cariche di cavalleria, aveva già causato un cambiamento di tattica, minimizzando il ruolo della cavalleria nei paesi occidentali. In effetti in occidente, sebbene la cavalleria fosse adibita ad operazioni sussidiarie, la fanteria risultava complessivamente meglio organizzata. In ogni caso per una corretta valutazione dell’arte della guerra polacca è necessaria una riflessione sull’impiego della cavalleria confrontato al ruolo ad essa attribuito nei coevi paesi dell’ovest europeo. La constatazione e l’evidenza delle numerose battaglie vinte dalla Cavalleria polacca dimostra ampiamente che il suo impiego tattico era decisamente superiore alle tattiche occidentali dello stesso periodo. Quale era dunque il suo segreto ?  Che tipo di danni poteva provocare il tiro della fanteria su un assalto di Ussari ? Poteva il fuoco della fanteria tenerli a distanza ? Ebbene la risposta è no !! Se ci si riferisce all’efficacia delle armi da fuoco dell’epoca, le informazioni che possono essere tratte dalle memorie dei comandanti, dei soldati o di osservatori dell’epoca ci aiutano ad inferire alcune preziose considerazioni. Giovanni Crisostomo Pasek, un soldato d’esperienza che ha combattuto su diversi fronti (contro gli Svedesi in Polonia ed in Danimarca nel 1650; contro i Russi nel 1660) ha lasciato fra le più interessanti memorie polacche del 17° secolo.  La sua opera è una fonte essenziale per la conoscenza militare di questo periodo. Nel suo libro, molto spesso egli annota riferimenti circa gli effetti delle armi da fuoco e dalle sue note si può rilevare in genere una ridotta efficacia di dette armi (cannoni e moschetti) e soprattutto le ragioni di tale inefficacia. L’autore riferisce in particolare che “la fanteria ed una decina di cannoni hanno fatto fuoco. Grazie a Dio le nostre perdite furono minime. La ragione va ricercata nel fatto che noi ci siamo mossi con molta rapidità e quindi avvicinatici ai cannoni abbiamo tirato sopra di essi. Ma come al solito noi avevamo una decina d’uomini feriti o uccisi. Ma nessuno dei feriti o di quelli che aveva il cavallo ferito poteva disimpegnarsi senza problemi”. Il fatto di poter affermare “come al solito” ci dice chiaramente che le perdite dovute al fuoco delle armi erano normalmente basse, anche sotto un fuoco nutrito e Pasek ce ne fornisce la ragione: la velocità della cavalleria ! Ma l’autore ci dice inoltre “non dimenticherò mai questo fatto e lo ripeterò dieci volte se necessario, anche se questo può apparire incredibile, quando le nostre quattro bandiere ricevevano una salva massiccia sui nostri fianchi, proveniente da 3 mila uomini di fanteria, la nostre perdite furono di un “compagno d’armi” e quattro servitori morti, molti cavalli feriti ed io ho perso anche un cavallo”. In questo caso quattro bandiere (circa 400 cavalli) erano il bersaglio di una grossa formazione di fanteria (Pasek parla di 3 mila uomini, che potrebbe essere certamente un’esagerazione) ed il risultato finale appare comunque modesto (5 morti e diversi cavalli feriti). Questo debole tasso di perdite fu in effetti una sorpresa per lo stesso Pasek, ma è comunque un ulteriore esempio che dimostra che i tiri della fanteria non erano così letali come sarebbe stato legittimo pensare. Pasek non è stato però il solo testimone di questo fenomeno. Ulteriore prova è fornita nel libro di un certo Pac, concernente un viaggio del futuro Re di Polonia Wladislaw (Ladislao) 4° Vasa nell’Europa occidentale nel 1624. Durante questo viaggio il principe venne educato ai principi dell’arte militare in vigore  in tali regioni ed in particolare si trovò a contatto con il comandante spagnolo Spinola durante l’assedio di Breda. A proposito di una domanda di Spinola rivolta al generale Enrico di Bergen sulla tattica da adottare davanti agli Ussari polacchi il Pac annota “Noi cenavamo spesso con Spinola e con molta gente importante ed in queste occasioni avevamo delle discussioni con questi personaggi, in quanto essi c’interrogavano sul soldato polacco e sulla sua maniera di combattere. Un giorno mentre ci chiedevano informazioni sugli Ussari ….. Spinola chiede ad Enrico di Bergen come questi pensava di poterli battere. Egli risponde che avrebbe utilizzato delle armi da fuoco, ordinando il fuoco proprio nel momento topico della carica dei cavalieri. Io a questo punto mi misi a ridere e tutti mi chiesero il motivo. Io risposi che noi avevano una grande esperienza a riguardo. Il nostro ospite, il principe di Baviera, ci aveva invitato ad una sontuosa partita di caccia. Un centinaio d’animali furono ad un certo punto il bersaglio di una dozzina di tiratori in formazione serrata. Nonostante ciò, il risultato fu che solo qualche animale rimase sul terreno. La situazione degli Ussari durante la battaglia non è molto più pericolosa di quella di questi animali durante la caccia. Durante una battaglia i tiratori possono abbattere qualche cavallo, ma non riescono ad arrestare una bandiera. Anche i picchieri non possono nulla contro essa ed alla fine i miei interlocutori conclusero che avevo ragione !”

Questo racconto molto interessante ci evidenzia la differenza di vedute fra la Polonia ed i regni dell’Europa dell’ovest i cui eserciti ripongono tutte le loro speranze di vittoria sulla potenza di fuoco

Nuovi metodi nella tattica delle fanterie

Questo argomento può essere concluso e completato attraverso un rapido esame della battaglia di Gniew nel 1626. Durante questa battaglie la cavalleria polacca dovette far fronte alle nuove tattiche fatte adottare da Gustavo Adolfo alla sua fanteria. La fanteria svedese infatti utilizzava una nuova tattica perfezionata chiamata “a salva”. Con tale procedimento, le tre file di dietro si alternavano con le tre prime file, quindi la prima s’inginocchiava, la seconda si curvava e la terza rimaneva in piedi. Allorché la cavalleria effettuava la carica, tutte le linee potevano tirare in contemporanea con dei risultati certamente e decisamente più efficaci. Questa tattica era chiaramente più pericolosa dell’antica “contromarcia”, perché con gruppi di tre righe di moschettieri alla volta poteva sviluppare un fuoco nutrito e perfettamente regolato.

Come reagiscono gli Ussari davanti a questo nuovo procedimento tattico? Durante i primi due giorni battaglia la nuova tattica riesce a fermare tutte le cariche degli Ussari. Tre bandiere polacche avevano effettuato senza successo una carica su tre squadre di fanteria (576 moschettieri aiutati da 6 cannoni). Seicento Ussari avevano costituito il bersaglio privilegiato di 1700 moschetti e di 18 cannoni. Tre fonti diverse ci forniscono le perdite avute dalla cavalleria polacca (20, 30 o 50 morti) che fa complessivamente una media di 33 morti per effetto dell’azione combinata dei moschettieri e della cavalleria svedese. Nonostante tutto, le perdite non erano state colossali, ma pur tuttavia decisamente più elevate delle giornate precedenti e comunque sufficienti a fermare la carica degli Ussari. Per quale motivo ? Era forse l’effetto della sorpresa dell’applicazione della nuova tattica?

La storia militare insegna che l’arrivo di un nuovo procedimento durante la battaglia può indurre l’avversario al panico. In questo caso specifico, gli Ussari si trovano davanti ad una nuova tattica che infrange la carica ed infligge perdite superiori al passato Nondimeno questa battaglia mostra anche paradossalmente che anche questo nuovo livello di perdite non erano in grado di spezzare la coesione della formazione di cavalleria. Durante gli ultimi giorni di questa battaglia, gli Ussari polacchi riusciranno nuovamente ad infrangere le formazioni di fanteria svedesi. Come ? In effetti gli Ussari avevano il tempo di ritrovare l’equilibrio della formazione ed il controllo della loro carica. In più i cavalieri polacchi introducono anche loro una nuova tattica di cooperazione con un altro tipo di cavalleria, quella leggera che aveva il compito di provocare la prima scarica della formazione avversaria. Comunque il risultato delle battaglie ci evidenzia che le perdite dovute all’impiego delle armi da fuoco sono state sempre modeste ed in genere la fanteria non era in grado di fermare una carica di Ussari.

Nonostante la riforma durante l’epoca di Gustavo Adolfo, la cavalleria poteva ancora caricare la fanteria con eccellenti risultati.

Le perdite a causa del tiro dei moschetti

Durante le battaglie numerosi uomini e cavalli risultavano feriti o uccisi Se mettiamo insieme tutti questi fenomeni le perdite complessive potevano a volte permettere alla fanteria di fermare le cariche dei cavalieri. I conteggi delle perdite si riferiscono spesso al numero dei morti, ma durante la carica, quello che era più importante era di sapere quante unità di Ussari i moschettieri nemici potevano eliminare (uccidere o ferire) ed in quale misura la loro azione incideva sulla loro coesione, sul loro morale e sull’efficienza militare dell’unità. Il rapporto di Bartosz Paprocki riferito alla battaglia di Lubieszow, avvenuta nel 1577 fra polacchi ed ungheresi, ci fornisce una descrizione dettagliata delle perdite polacche. La lista delle perdite riporta: 14 Polacchi morti, 45 Polacchi feriti, 31 cavalli polacchi morti, 58 cavalli polacchi feriti, 4 Ungheresi morti, 7 Ungheresi feriti, 7 cavalli ungheresi morti, 7 cavalli ungheresi feriti, 40 fanti morti, 80 fanti feriti.

Dai dati sopradetti si ricava la statistica di un morto polacco per ogni tre feriti, un cavallo polacco morto per ogni due feriti ed in genere le perdite complessive dei cavalli erano di circa 1,5 superiori a quelle complessive degli uomini. Pertanto, applicando questa statistica di base, se nella carica si avevano 10 cavalieri morti ci si potevano attendere delle perdite complessive intorno alle 100 unità così ripartite: cavalieri, 10 morti e 30 feriti; cavalli, 20 morti e 40 feriti. Se invece si considerano le perdite subite dagli ungheresi il rapporto fra morti e feriti della cavalleria è di circa 1 a 1 ed il rapporto complessivo fra uomini e cavalli rimane sempre intorno all’1,5, come per i Polacchi. 

In ogni caso la somma complessiva di queste perdite è tale da bloccare una carica di cavalleria ? Cominciamo dai cavalli. Molti rapporti del 18° secolo e di quello successivo hanno ampiamente dimostrato una grande capacità di resistenza dei cavalli feriti. Diversi autori sino alla prima guerra mondiale hanno evidenziato nei loro racconti di cavalli scossi che continuavano la loro corsa, creando scompiglio nelle formazioni nemiche, come anche dell’effetto sulla fanteria dell’anormale resistenza dei cavalli feriti. Proprio la grande resistenza dei cavalli feriti era uno dei motivi che incuteva paura nella fanteria. Durante la carica solo i cavalli morti risultavano immediatamente inefficaci. Il rimanente di essi continuava a correre contro la formazione nemica al seguito degli altri, calpestando ed uccidendo i fanti che non comprendevano per quale motivo le loro armi avessero così poca efficacia. I fanti cominciavano a quel punto a tirare troppo alto, ad essere presi dal panico e quindi a fuggire. Il risultato finale si traduceva poi in un massacro.

Si può quindi constatare quanto i cavalli feriti potevano ancora combattere e provocare danni. Il rapporto di Paprocki ne fa fede.

Tuttavia durante la carica il numero dei cavalli morti era effettivamente minore. In effetti la metà dei cavalli veniva uccisa durante la carica, l’altra metà era poi abbattuta alla fine del combattimento dai proprietari. Anche per i cavalieri vale più o meno lo stesso discorso. Ci sono numerose testimonianze di uomini che continuano a battersi nonostante le ferite. La tattica della fanteria moderna suggerisce un “tiro doppio sul corpo ed un tiro singolo alla testa” Tuttavia, a differenza dei cavalli, gli uomini non posseggono la stessa resistenza ed in genere un uomo seriamente ferito non è più in grado di combattere. Ad ogni buon conto un terzo della cavalleria considerata come ferita poteva continuare a combattere e se consideriamo che fra le perdite complessive per una piccola percentuale può coincidere cavallo con il cavaliere se può agevolmente dedurre che la morte di 10 cavalieri durante una carica provocava la perdita complessiva da 30 a 50 unità di combattimento (cavallo più cavaliere).

La fine di un’epoca ?

Torniamo alla battaglia di Gniew. Durante questa battaglia, 600 Ussari hanno caricato la fanteria moderna di Gustavo Adolfo. La prima linea era composta da 150 Ussari. Noi sappiamo che in una carica la fanteria e l’artiglieria (576 uomini e 6 cannoni) eliminavano al massimo 10 cavalieri e quindi complessivamente da 30 a 50 unità militari della bandiera Orbene se si applicano tutte le perdite sulla prima linea si ottiene una perdita percentuale del 20 - 30% della prima linea di Ussari e quindi le linee seguenti risultavano perfettamente in grado di condurre in porto la carica. In sostanza le perdite inflitte dalla fanteria sono sostanzialmente troppo deboli per consentire di bloccare una carica. Nonostante tutto Gustavo Adolfo decide comunque di adottare la nuova tattica che, se anche non riusciva a spezzare lo slancio della carica, infliggeva, in ogni caso, un tasso di perdite superiore.

Le ragioni per il debole effetto delle armi da fuoco

Conviene ora considerare i motivi del ridotto effetto dell’impiego delle armi da fuoco. Il fatto dipende da diversi fattori:

- la carenza a quest’epoca d’armi di maggior portata, fatta eccezione per un piccolo numero d’armi da caccia. La portata stabilizza la traiettoria e migliora la distanza di tiro utile e la precisione;

- non esisteva un sistema di puntamento ed il tiratore indirizzava solo la sua arma in direzione del bersaglio. D’altronde l’imprecisione delle palle di cannone ad anima liscia non poteva venire compensata dall’applicazione di un sistema di puntamento;

- la carica di lancio era calcolata senza eccessiva precisione. Ciò aveva per conseguenza un’incoerenza nella velocità iniziale, nella portata e la precisione. Anche il tempo meteorologico aveva un’influenza sulla precisione del tiro, se la polvere risultava umida;

- infine non era così semplice effettuare il tiro su dei bersagli mobili e rapidi.

Inevitabilmente il tasso di tiri mancati era abbastanza elevato. Oggi i tiratori che utilizzano il visore per il puntamento hanno fra il 10 ed il 20% di colpi a vuoto, ma le condizioni di tensione nel corso di una battaglia non permettevano di conseguire in ogni caso degli eccellenti risultati. Il fatto di doversi sbrigare nelle operazioni di ricarica era altresì un ulteriore importante fattore di colpi a vuoto. Ad ogni buon conto ogni comandante sapeva che la prima salva di colpi doveva essere la migliore, tanto che i primi tiri venivano effettuati con molta cura, sapendo che i successivi sarebbero inevitabilmente diventati sempre meno efficaci.

Forse la causa maggiore del basso rendimento delle armi da fuoco è da imputare alla psicologia dell’uomo. Esiste una sensibile differenza fra tirare su un bersaglio in addestramento e su un nemico in combattimento. Se prendiamo il caso degli atleti, quale è il tasso di realizzazioni mancate di tiri liberi da parte di un giocatore di pallacanestro fra l’allenamento e quello di una partita? Perché durante l’allenamento i giocatori sfiorano il 100% e diminuiscono il tasso di rendimento durante una partita ? Le ragioni sono la fatica, la lucidità e l’emozione. Anche se i giocatori possono controllare la loro mente, essi commettono ugualmente dei falli. Allo stesso modo come reagisce un soldato al suo primo combattimento? Quale reazione ha un fante davanti ad una carica di cavalleria? Anche durante la prima guerra mondiale, dove certo non mancava la potenza di fuoco, i soldati erano presi da panico davanti ad una carica di cavalleria. Per contro anche se i soldati riuscivano a mantenersi calmi, le emozioni al loro interno rimanevano elevate e la conseguenza immediata era un tiro meno efficace del solito. D’altra parte molti soldati preferivano tirare nel mucchio piuttosto che mirare su un nemico in particolare, abbassando ulteriormente l’efficacia complessiva.

Come gli Ussari minimizzavano le loro perdite

Le istruzioni del tempo ci dicono che I moschetti non avevano una portata oltre i 75 metri. Una distanza che gli Ussari poteva coprire talmente rapidamente che i moschettieri non potevano reiterare il tiro molte volte e che dovevano utilizzare per porsi al riparo dei picchieri. Gli Ussari attendevano per lanciare la carica e coprire gli ultimi 75 metri, nel momento in cui la seconda fila di moschetti si organizzava per il tiro. Ricordiamo inoltre che la fronte di una bandiera era di 150 metri contro i 100 della fanteria e che quindi poco più del 50% della prima linea era esposto al tiro avversario. Le bandiere di cavalleria erano organizzate per ondate successive ed a scacchiera in modo che l’ondata successiva potesse passare fra le bandiere della prima ondata. Tutto ciò consentiva alla prima ondata di avanzare senza disorganizzare la formazione nel suo insieme. L’integrità della formazione era molto elastica e permetteva una cooperazione fra le varie masse. Succedeva a volte che la prima carica non riusciva a spezzare i ranghi avversari. Allora la bandiera si ritirava e procedeva ad una seconda carica e questa veniva effettuata generalmente in tempi talmente brevi che l’avversario non aveva spesso il tempo di riformare la sua formazione.

In definitiva è possibile affermare che la carica degli Ussari era capace di disarticolare una formazione di fanteria che adottava la tattica della contromarcia e di affrontare con buone probabilità di successo anche la fanteria che applicava la tattica moderna di un salva di tiro proveniente da una triplice riga.

L’Ussaro, scartato l’impiego standard della lancia, utilizzava un metodo speciale di maneggiamento della stessa lancia. Da una pittura tratta dalla Battaglia di Vienna di Marcin Altomonte nel 1694, si può dedurre il suo impiego standard.

Ma questo modo eccezionale d’impiego è descritto da Francesco Paolo d’Alerac, segretario di Maria Kazimiera de la Grange d’Arquien, moglie del Re di Polonia, che avuto anche il ruolo di cortigiano del Re Giovanni 3° Sobieski. Nel 1689, questi descriveva gli Ussari in tal modo (da aneddoti di Polonia o memorie segrete del Regno di Giovanni Sobieski):

«Gli Ussari sono i più bei cavalieri d'Europa grazie ai loro cavalli, magnifici e forti e grazie alle loro sontuose vesti (...). Gli Ussari sono equipaggiati d’elmo, da para braccia, che protegge il davanti ed il dietro del braccio fino al gomito. Inoltre essi non portano guanti. Essi indossano sulle loro spalle una pelle di leopardo o di tigre e sono armati con una lancia leggera fatta di legno molto flessibile, vuota all’interno, lunga dai tre ai quattro piedi. Le lance erano dipinte o ricoperte d’oro ed erano sostenute da un porta lancia brandeggiabile, attaccato alla sella in permanenza, anche durante il combattimento e senza il quale era impossibile impugnarla a causa del suo rilevante peso. Gli Ussari lanciavano i loro cavalli al galoppo al fine di distruggere tutto davanti a loro”

Altre fonti ci sono utili per capire come venivano maneggiate. Da un’immagine del libro di Joachim Pastorius (Joachim Pastorii Florus Polonicus seu Polonicae Historiae Epitome Nova Dantisci) possiamo chiaramente vedere che l’ussaro tiene la sua lancia in una specie di porta lancia.  Secondo il D’Alerac questo strumento aiutava il cavaliere a maneggiare l’arma. Tali antiche descrizioni devono essere intergrate da delle analisi più tecniche.

Sulla lancia in posizione di combattimento agiscono due forze principali e cioè: la verticale che tende ad abbassare la lancia e ad appesantire il braccio e la mano e la forza orizzontale che assiste l’ussaro nel sostegno del peso della lancia. Senza il porta lancia. Il porta lancia consente di neutralizzare la forza verticale o discendente che rappresenta circa i due terzi del carico sul braccio e sulla mano.  Questo sistema comportava due vantaggi. In primis l’ussaro poteva maneggiare la sua lancia standard, più corta e più leggera, con molta più efficacia e successivamente egli era in condizioni di impiegare una lancia più lunga che senza un tale appoggio sarebbe stato problematico. In entrambi i casi il porta lancia consentiva di compiere un attacco a percussione o di compiere il movimento in avanti solo negli ultimi secondi prima dell’impatto. L’attacco si riduce essenzialmente ad un movimento orizzontale e questo spiega perché la forza degli Ussari è impiegata tutta in funzione dell’attacco in sé stesso e non nel portare e sostenere la lancia. 

Infatti il porta lancia permetteva agli Ussari di poter impiegare una lancia più lunga delle picche. In più la stessa possedeva una qualità mortifera supplementare. Grazie ad una cinghia posta sul corpo dell’ussaro ed incernierata sull’estremità del porta lancia e ad un perno posto sul porta lancia stesso, l’Ussaro poteva tirare la lancia all’indietro e scaricare in tal modo il peso maggiore della lancia nel porta lancia, alleggerendo in tal modo la pressione sul braccio e la mano. Solo qualche secondo prima dell’assalto finale, l’Ussaro può far discendere la lancia in posizione d’attacco ed imprimere quindi tutta la forza necessaria nell’urto. Tutta la sua forza può essere utilizzata a tal fine, fato che conferisce una potenza d’impatto decisamente più devastante.

Certamente, l’impiego di una lancia standard avrebbe rappresentato un rischio supplementare nella misura in cui nel momento del contatto con un avversario fortemente protetto, l’ussaro poteva essere proiettato violentemente all’indietro dalla lancia o dal porta lancia. Ma la lancia polacca vuota all’interno si spezzava prima che si potesse produrre una tale evenienza, proteggendo il cavaliere dalla violenza di un tale contraccolpo. Allorché il cavaliere non caricava egli portava il porta lancia in posizione verticale senza sovraccaricare il suo braccio. Un sistema di cinghie consentiva infatti di abbassare il porta lancia all’altezza del piede ed il cavaliere poteva mantenere la sua lancia in posizione verticale con l’aiuto del suo braccio.

Conclusione

Per circa due secoli, la cavalleria degli ussari polacchi è stata considerata come la migliore cavalleria al mondo. Grazie ad un addestramento spinto dei cavalieri, a delle innovazioni tattiche e ad un armamento ed un impiego unico, grazie ad un brillante impiego brillante dei cavalli polacchi, tenaci, rapidi e molto allenati e grazie a dei comandanti capaci di dare loro adeguate direttive, gli Ussari hanno conseguito dei risultati sbalorditivi. La comparsa di questi cavalieri alati, dalla nobile apparenza, ha guadagnato il rispetto in ogni parte dell’Europa. Questa cavalleria era effettivamente unica ed ha lasciato un alone di leggenda nella stessa Polonia. Essa contribuisce largamente al cambiamento dei punti di vista riguardo l’impiego delle forze montate. Il successo degli Ussari indurrà Gustavo Adolfo ad apportare significativi cambiamenti anche alla propria cavalleria. La Russia nel 17° secolo arriverà persino a copiare il modello degli Ussari polacchi. Il 18° secolo è stato il sinonimo del declino della cavalleria pesante, anche in Polonia. Con la fine delle picche di fanteria, la lancia speciale degli Ussari non aveva più alcuna utilità. Il posto degli Ussari polacchi viene preso da una nuova formazione di cavalleria equipaggiata di lance più corte, gli Ulani polacchi.

Lista non esaustiva delle vittorie degli Ussari

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Battaglie e anno

Forse polacche ed alleate

Nemico e forze

Rapporto

di forze

Note

Orsza 1514

30 000

Russi, 60 000

1/2

 

Obertyn 1531

5 700

Moldavi, 17 000

113

 

Lubieszow 1577

2 500

Borghesi di Danzica,        11 -  12 000

1/4.5

Inclusi 3100 Tedeschi dei

Landsknechts

Toropiec 1580

2 500

Moscoviti, 10 000

1/4

 

Byczyna 1588

6 000

Austriaci, 6 000

1 / 1

 

Cuprea de Argesz 1600

1 500

Rumeni, 9 000

1/6

 

Kircholm 1605

3 700

Svedesi, 11 000

113

 

Kluszyn 1616

6 800

Russi, 35 000

1/5

Inclusi 5 000 mercenari di Svezia e dell'Europa occidentale

Chocim 1621

55 000

Turchi, 110 000

1/2

 

Trzciana 1629

4 500

Svedesi, 9 000

1/2

Esercito svedese, mo- derno e comandato da

Gustavo Adolfo

Ochmatow 1644

19 000

Tartari, 20 000

1 / 1

 

Beresteczko 1651

70 000

Cosacchi e Tartari, 100 000

1/1.5

 

Podhajce 1667

3 000

Tartari e Cosacchi, 25 000

1 / 8

 

Raid contro

Czambul 1672

3 000

Tartari, 20 000

1/7

 

Chocim 1673

30 000

Turchi, 30 000

1 / 1

 

Leopoli 1675

6 000

Tartari, 10 000

1/1.5

 

Vienna 1683

70 000

Turchi, 100 000

1/1,5

Soldati polacchi nell’e-sercito alleato 27 000

CRONOLOGIA

1514 : battaglia di Orsza (una volta in Lituania, oggi in Bielorussia). Una delle prime battaglie degli ussari polacchi.

1605 : battaglia di Kircholn, presso Riga.

1610 : battaglia di Kluszyn e conquista di Mosca da parte dei Polacchi.

1629 : battaglia di Trzciana e distruzione delle forze di Gustavo - Adolfo.

1683 : battaglia di Vienne. Inizia il riflusso turco in Europa.

L'Umbria e la Cecoslovacchia..... un'antica amicizia

L'UMBRIA E LA CECOSLOVACCHIA..... UN'ANTICA AMICIZIA

(stampato sulla pag. 43 del CORRIERE dell’UMBRIA di PG, del 23 giu 1993)

Quando si pensa ai rapporti Umbria Cecoslovacchia gran parte della gente fa riferimento al patto di gemellaggio esistente fra la città di Perugia e quella slovacca di Bratislava (l'antica Presburgo), ma pochi forse sanno o appena immaginano che il legame storico morale instaurato fra la nostra Regione e la Cecoslovacchia è molto più antico e profondo e risale al 1918, anno della proclamazione della Repubblica Cecoslavacca a Praga.

Il Consiglio Nazionale dei Paesi Cechi (allora a Parigi in Rue Bonaparte 18), presieduto da Benes, Stefanik (ufficiale boemo dell'Esercito Francese) e Osuky e derivato dal Comitato Cecoslovacco esterno di Londra del 1915 di Masarik, decide nel settembre 1917 di proporre al Governo Italiano la costituzione di unità cobelligeranti, da trarre dai numerosi prigionieri e disertori austro - ungarici - di nazionalità cecoslovacca - riuniti nei Campi di Concentramento (nel senso letterale della parola) italiani di S. Maria Capua Vetere (CE), Certosa di Padule (SA) e Fonte d'Amo­re di Sulmona.

Il progetto viene accolto, verso la fine del 1917, in modo entu­siastico fra i prigionieri con la costituzione spontanea del "Corpo Volontario Cecoslovacco" e davanti a tanto entusiasmo l'11 aprile 1918 il Governo Italiano incarica il Generale Andrea Gra­ziani di procedere alla sua organizzazione in previsione di un rapido impiego in battaglia.

L'Umbria viene scelta come zona di radunata e di costituzione e nel giro di poco tempo il Generale Graziani - stabilito il suo Comando nel Palazzo Candiotti di Foligno - fa germogliare quello che sarà poi il nucleo originario del futuro Esercito Cecoslovac­co. Vengono costituiti inizialmente - utilizzando per l'inquadra­mento molti ufficiali italiani - due Comandi di Brigata: l'11^ (Generale Alfredo Gabrielli poi Generale De Vita) di stanza a Perugia e la 12^ (Generale Luigi Sapienza) di stanza a Foligno; 4 Reggimenti di Fanteria: il 31° (Colonnello Luigi Ciaffi) a Foli­gno inizialmente e quindi a Santa Maria degli Angeli, il 32° (Co­lonnello Giulio Cravero) ad Assisi, il 33° (colonnello Riccardo Barreca) a Foligno ed il 34° a Spoleto (Colonnello Enrico Gambi), ed 1 Reggimento di Artiglieria: il 6° a Foligno.

Particolarmente interessante risulta la dislocazione dei batta­glioni dipendenti: il 31° Reggimento aveva i suoi 3 battaglioni rispettivamente a Bastia Umbra, Perugia e Santa Maria degli Ange­li); il 32° a Bevagna, Spello ed Assisi; il 33° a Foligno e Beva­gna; il 34° aveva il 1° Battaglione a Narni con distaccamento di compagnia a Cesi, il 2° Battaglione a Spoleto ed il 3° ripartito fra Trevi, Campello e Montefalco.

Il contatto fra gli ex prigionieri e la popolazione umbra è e­stremamente felice e fra le varie città che ospitano i nuovi re­parti sorge spontanea una gara di solidarietà, di simpatia e di iniziative a loro favore, perché a nessuno sfugge il profondo significato di giovani che volontariamente scelgono di battersi per un'altra Nazione.

Fra le tante iniziative vale la pena ricordare la richiesta di poter consegnare ai reparti la "bandiera di guerra" (fra queste quella del Sindaco di Narni, Barilatti e quella del Comitato di Mobilitazione Civile di Assisi, presieduto dall’avvocato Hack) la cui assegnazione formale ai reggimenti viene prudentemente rimandata a dopo il battesimo del fuoco.

Mentre si continua nella costituzione di altre unità, il 31 mag­gio 1918, la 6^ Divisione cecoslovacca - ricevuta a Roma la Ban­diera di Guerra - parte per il fronte e il mese dopo nella Batta­glia del Solstizio sul Piave e nell'agosto successivo in linea fra l'Adige ed il Garda, molti giovani cecoslovacchi immolano generosamente la propria vita per l'Italia.

Alla fine dell'ottobre 1918, con le altre unità costituite in Umbria, viene organizzata la 7^ Divisione cecoslovacca al comando del Generale Giuseppe Boriani ed il 15 novembre seguente le due Divisioni - 6^ (Generale Gastone Rossi) e 7^ - vengono riunite in un Corpo d'Armata Cecoslovacco (agli ordini del Generale Luigi Piccione) che l'8 dicembre dello stesso anno giura fedeltà a Pa­dova - alla presenza di Benes e del Re Vittorio Emanuele - alla neonata Repubblica Cecoslovacca.

Ma il nuovo Stato è ancora in buona parte da disegnare sulla car­ta e la Slovacchia si trova ancora sotto l'occupazione delle truppe ungheresi, per cui si rende necessario l'immediato rientro in Patria del Corpo d'Armata per aiutare a consolidare la nuova situazione. Partono così dal Veneto per la Boemia, il 14 dicembre 1918, su 3 mila vagoni delle ferrovie italiane, 25 mila soldati in uniforme italiana da alpino con mostrine e coccarda bianco rossa (i colori del nuovo Stato), 3 mila quadrupedi, artiglierie, automezzi e munizioni con la missione - alla guida di un generale italiano - di liberare la Slovacchia.

Il 29 dicembre 1918 dalle basi di partenza di Brno (7^ Divisione) e Kromeritz (6^ Divisione), in Moravia, hanno inizio le operazio­ni militari contro gli Ungheresi che permettono il 1° gennaio 1919 la liberazione di Bratislava e nello stesso mese in tempi successivi quella di Kosice e della Slovacchia Orientale, garan­tendo così la completa sovranità territoriale al nuovo Stato.

La Missione Militare Italiana in Cecoslovacchia termina la sua attività nel 1920, rientrando in Patria, lasciando un profondo senso di gratitudine per l'opera svolta ed il riconoscimento di aver dato i natali alle Forze Armate Cecoslovacche.

All'Umbria ed alle città di Foligno, Perugia, Assisi, Spo­leto, Narni, Bevagna, Spello, Trevi, Bastia Umbra, Montefalco, Campello e Cesi va il merito e la soddisfazione di essere state la culla del neonato Esercito Cecoslovacco e di aver con­tribuito indiret­tamente con il calore della loro gente all'indi­pendenza nazionale di quel Paese; a Perugia, in particolare, il piacere di ricordare che la liberazione di Bratislava, alla quale è gemellata, trova i suoi presupposti anche tra le sue mura; alle Autorità regionali e locali, infine, nel momento in cui due nuove demo­crazie muovono i primi passi, lo spunto per rinvigorire, at­tra­verso appropriate iniziative, un'antica e significativa ami­cizia.

WALTER SCOTT, il Padre del Romanzo Storico

WALTER SCOTT, il Padre del Romanzo Storico

(Stampato su “SUBASIO” n. 3/15 del marzo 2007, Bollettino trimestrale dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi).

Profilo di uno scrittore che ha fatto entrare la storia nella letteratura popolare.

Nessuno avrebbe potuto prevedere che il piccolo Walter Scott, messo al mondo ad Edimburgo il 15 agosto 1771, si sarebbe fatto un nome considerevole nel campo della letteratura ed avrebbe esercitata un influenza senza precedenti sui suoi contemporanei.

Uscito da una famiglia di agricoltori delle bassipiani scozzesi, gli Scott non vedevano altro sbocco per la carriera del loro figlio che nella magistratura, nella Marina o nell’Esercito. Un attacco di poliomielite, che colpisce il giovane Walter all’età di tre anni, lo lascia leggermente claudicante e contribuirà a decidere altrimenti della sua vita.

Questa malattia avrà per il bambino delle conseguenze inattese. Gli chiude la carriera delle armi, ma la sua lunga convalescenza gli fornisce anche l’occasione di leggere molto e di provare piacere nella scrittura. La malattia lo distoglie anche dalle attività della sua età per lasciarlo a lungo in compagnia di adulti, testimoni del passato. Il ragazzo immagazzina accanto a loro quel tanto di racconti da appassionarsi per una storia locale, ancora scossa dalle recenti lotte fra i partigiani degli Stuart e quelli di Hannover ed al punto tale che lo stesso Walter crede di esserne egli stesso un testimonio oculare.

Nel 1783, a 12 anni, Walter Scott si iscrive alla Facoltà di Diritto dell’Università per diventare avvocato nel 1792: inizio di una carriera giuridica, dal percorso già segnato. In questo periodo egli trascorre il suo tempo libero a tradurre poeti tedeschi dalla sbrigliata sentimentalità, prima di cimentarsi lui stesso nella metrica, producendo delle poesie falsamente medievali come “Il lamento dell’ultimo menestrello” nel 1805, “Marmione” nel 1808, “La dama del Lago” nel 1810. Il loro grande successo fu la prima sorpresa e contribuisce a lanciare in Europa lo stile “trovatore”.

Nel 1814, esce, senza autore, un romanzo, “Waverley”, evocazione del sollevamento scozzese del 1745 a favore di Bonnie Prince Charlie, brutalmente schiacciato l’anno dopo nella battaglia di Culloden. Egli ne è l’autore, ma temendo un fallimento, aveva preferito non svelarsi. Con questo lavoro egli si dedica ad un esercizio assolutamente nuovo: romanzare dei fatti storici, rendendoli attraenti ad un pubblico per il quale l’arte di Clio si riassumeva spesso in fastidiosi cataloghi di date, di nomi e di fatti astratti dal loro contesto. Mescolando a dei personaggi veri degli altri di pura finzione, Scott faceva entrare la storia nella letteratura popolare, guadagnandogli un pubblico nuovo, il più spesso femminile.

Da quel momento, il catalogo delle sue opere, arricchito di almeno un titolo ogni anno, è un seguito di successi, dalla traduzione quasi immediata in tutta Europa. Ad esempio “Guy Mannering”, nel 1815; “L’Antiquario”, nel 1816; “I Puritani di Scozia”, nel 1817; “Rob Roy”, nel 1818; “La sposa di Lamermoor”, nel 1819, per citare solamente i più famosi.

Questo primo ciclo romanzesco, considerato dai critici come il più degno di interesse, prende le mosse dal passato più recente della Scozia. A partire dal 1820 Scott inaugura un nuovo periodo, quello del romanzo storico puro con “Ivanhoe”, “Kenilworth” o ancora “Quintino Durward”, mettendo in scena alla corte di Francia la “Guardia scozzese di Luigi 11°”.

A dispetto del suo folgorante successo e la nobilitazione conferitagli nel 1819, l’epoca non è delle migliori per Scott. Nel 1825, dei cattivi investimenti e delle divergenze con il suo editore lo conducono alla rovina, l’obbligano a vendere la sua proprietà e la sua biblioteca di Abbotsford. La sua sposa ne morirà di dolore. Minato dalle preoccupazioni, Scott continua ugualmente a scrivere, nonostante una serie di complicazioni cardio vascolari. Muore il 21 marzo 1832, dopo averle passate tutte e senza immaginare che la sua gloria postuma avrà delle conseguenze sorprendenti.

La prima si verifica a partire dal maggio 1832 con la spedizione della Duchessa di Berry. Lettrice assidua della sua opera, Maria Carolina di Borbone-Sicilia non era una donna che faceva molto caso alla differenza fra finzione e realtà. Nutrita dell’epopea Stuart la donna si mette in testa che la Vandea è l’equivalente degli Highlands scozzesi in fatto di fedeltà realista. Nessuno riuscirà a farle capire che la realtà non risponde alle leggi della letteratura. Si sa poi come è andata a finire. Postasi alla testa della rivolta della Vandea contro Luigi Filippo finisce per fallire miseramente.

A torto, la maggioranza dei lettori vedono in lui il cantore di tempi passati e sublimi. Attitudine che farà dire a Mark Twain, in maniera alquanto esagerata, che Scott, troppo letto dai gentlemen del sud, fu la causa principale della Guerra di Secessione ….

Reale e durevole sarà invece la sua influenza su diverse generazioni di scrittori. Facendo della storia un campo d’azione supplementare del romanzo, Walter Scott diventa una fonte di ispirazione ed un modello per Alessandro Dumas, Victor Hugo, Nievo, Manzoni, il giovane Verga ed altri. Nel mondo anglosassone egli ispira a turno “Gli ultimi giorni di Pompei” di Bulwer-Lytton o “Altrettanto ne porta il vento” di Margaret Mitchell.

Una così gloriosa posterità dovrebbe incitare a rileggere un’opera per la quale Goethe, quando ne riceveva la consegna, interrompeva tutti i suoi propri lavori.

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