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IACOPI DISCENDENZE E STORIA

Una vita di ricerche per conoscere chi sono.

  

MACHU PICCHU

Erano ormai diverse ore che Hiram Bingham III (1875-1956) aveva iniziato la sua ascensione. Le sue gambe erano diventate pesanti, i suoi abiti pieni di sudore ed i suoi polmoni avevano sempre maggiore difficoltà a respirare l’aria rarefatta della montagna. Perché mai sottoporsi a questa prova?... Tutto questo perc un abitante dei dintorni, un contadino peruviano, certo Melchor Arteaga, gli aveva vagamente promesso che avrebbe trovato alcune rovine inca sulla cima di una montagna vicina. Ma c’era il rischio che anche questa ascensione potesse trasformarsi in una spossante fatica completamente vana. All’improvviso Bingham sente, proprio come le sue guide, un sussulto di energia. Davanti agli occhi del gruppo cominciava a delinearsi “uno spettacolo mpressionante, diversi piani di terrazze in pietra tagliata, forse un centinaio, ciascuna misurante tre metri di altezza e lunghe più di cento metri”. Vinto dall’emozione, Bingham si rende conto che aveva finalmente trovato le rovine della città inca di Vilcabamba. Nello specifico, si trattava, però, di quelle di Machu Picchu ed anche se egli ancora non lo sapeva, la sua scoperta sarà una delle più importanti del XX Secolo (1).

Un regno dorato

Hiram Bingham III viene spesso paragonato ad Indiana Jones: un archeologo con lo spirito dell’avventura, che si sentiva molto più a suo agio in mezzo alla giungla, che in una biblioteca impolverata. Egli si appassiona ben presto alla storia dell’America latina e, dopo aver ottenuto un dottorato nella materia, accetta un incarico di professore presso l’Università di Yale. Forse sarebbe rimasto nell’ambito di questa prestigiosa università se non avesse incontrato sua moglie, Alfreda Mitchell Tiffany (1874-1967), che era ereditiera dei celebri gioiellieri Tiffany e da cui avrà sette figli (2). Bingham viene così a beneficiare del sostegno finanziario necessario per realizzare i suoi sogni: partire in spedizione per l’America latina. Nel corso della sua prima avventura, nel 1906, egli segue i passi del celebre generale Simon Bolivar (1783-1830), che aveva viaggiato in Venezuela ed in Colombia nel 1819. Ma quello che interessava veramente Bingham era una civiltà che aveva regnato sul Peru 300 anni prima delle peregrinazioni di Bolivar: gli Incas. A partire dal XII Secolo, questa civiltà ha iniziato a costruire uno dei più grandi imperi del mondo, che si consoliderà nel corso dei cento anni seguenti. Gli Incas erano formidabili guerrieri, architetti di talento, ingegneri di valore, che hanno conquistato un territorio di più di 4.000 km quadrati. Per loro sfortuna, essi avevano un gusto smodato per l’oro. Nel 1532, un conquistador spagnolo di nome Francisco Pizarro (1475-1541) si avventura nei loro territori, con 180 soldati. Anche Pizarro era fortemente attirato dai metalli preziosi e per questo motivo egli decide di andare ad incontrare Atahualpa (1502-1533), l’imperatore (Inca) degli Incas. Nel mese di novembre del 1532, Pizarro invita Atahualpa a raggiungerlo nella città di Cajamarca, per un incontro. Ma le intenzioni del Conquistador erano ben lungi dall’essere pacifiche. Gli uomini di Pizarro aspettano che Atuahualpa ed il suo seguito siano giunti nella piazza centrale della città per lanciare l’attacco. Si slanciano quindi contro gli Incas che non erano armati, uccidendone molti e facendo prigioniero l’imperatore. In cambio della sua liberazione, l’Inca avrebbe promesso di offrire sontuosi tesori a Pizarro: una camera riempita d’argento. Gli Incas dei quattro angoli dell’impero si affrettano ad inviare tutte le loro ricchezze agli Spagnoli per liberare il loro capo. Ma gli invasori non manterranno la parola: dopo aver recuperato l’oro e l’argento, giustizieranno Atahualpa. Questo atto di estrema infamità farà cadere l’America latina in un violento conflitto, nel quale prevarrà inevitabilmente la tecnologia militare degli invasori. Gli Spagnoli potevano contare su qualche centinaio di soldati (decisamente molto meno degli Incas, che, da parte loro, avevano a disposizione almeno diverse migliaia di guerrieri), ma essi disponevano di notevoli vantaggi nel campo militare: armature, armi da fuoco e cavalli. Quanto basta per avere il sopravvento su un nemico equipaggiato di mazze e di lance (che era stato sensibilmente indebolito dal vaiolo e da una precedente guerra civile). Nel giro di appena qualche anno, gli Spagnoli riusciranno ad annichilire l’impero inca, che aveva dominato da secoli sulla regione. Pizarro ed i suoi uomini saccheggeranno tutte le città ed i templi incontrati sulla loro strada e ben presto anche l’ultimo focolaio di resistenza di Manco Inca finisce per capitolare, sanzionando così la fine della civiltà incaica.

Pista sbagliata

Bingham aveva sentito parlare di questo illustre popolo ed egli desiderava, più di ogni altra cosa, ritrovare la cittadella perduta di Vilcabamba. Era proprio in questo posto, nel cuore delle montagne peruviane, che l’imperatore Manco Inca Yupangui o Manco II (1512-1544) aveva condotto una campagna di guerriglia accanita e molto audace contro gli Spagnoli. Era proprio in quel posto che erano state represse le ultime resistenze incas nel 1572. Questa città, che era andata incontro ad una sorte veramente tragica, aveva un valore inestimabie agli occhi degli storici. Bingham, quando nel luglio del 1911 scorge le rovine di Machu Picchu per la prima volta, pensa, senza dubbio, di aver conseguito il sogno della sua vita. Ma queste vestigia non erano quelle di Vilcabamba, (che scoprirà qualche anno più tardi), anche se decisamente molto più preziose. Bingham ritorna diverse volte a Machu Picchu (3) nel corso degli anni seguenti. Scatta centinaia di cliché, scava numerose tombe e trasporta migliaia di oggetti (fra i quali vasi in terracotta, utensili e coltelli in bronzo) negli Stati Uniti (agendo in tal modo provocherà vive tensioni fra l’Università di Yale ed il Governo peruviano, che accuserà gli Americani di approfittarsi dell’eredità culturale peruviana). Ma sono le stesse rovine di Machu Picchu che verranno iscritte nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO nel 1983. In questa occasione, il sito verrà descritto come “un capolavoro assoluto dell’architettura ed una testimonianza unica della civiltà incaica”.

Incredibile solidità

Secondo gli archeologhi, quando la città era al suo apogeo, essa disponeva fra i 300 ed i 1.000 abitanti. Come dimostrato dagli scavi, la città disponeva di una zona agricola ed una zona urbana, al cui interno trovavano posto templi, abitazioni ed una grande piazza che serviva da luogo di riunione per le cerimonie. Come constatato dallo stesso Bingham, non si trattava di costruzioni ordinarie, perché le persone che l’avevano costruite avevano dimostrato una incredibile ingegnosità. Gli artigiani inca disponevano solamente di pietre e di strumenti in bronzo, ma essi erano talmente abili da essere in grado di costruire gli edifici di Machu Picchu con una precisione quasi chirurgica. La struttura, fra le più impressionanti, é senza dubbio il tempio del Sole, un luogo di culto semi circolare che risulta allineato secondo i raggi del sole del solstizio d’inverno. Esso era stato eretto intorno ad una grande roccia sacra che serviva, probabilmente, da altare per gli Incas. Agli occhi degli abitanti di Machu Picchu, la venerazione del Sole costituiva un atto primordiale. Essi praticavano quasi certamente i loro rituali nell’ambito dell’edificio dell’IntiWatana, che custodiva una pietra monumentale scolpita. Gli archeologhi ritengono che, al momento del solstizio d’inverno, gli Incas ”attaccassero” il Sole ad un palo per impedirgli di passare definitivamente dall’altro lato dell’orizzonte.  Se il tempio del Sole e l’IntiWatana erano i luoghi spirituali più importanti di Machu Picchu, la città disponeva di altri sontuosi edifici, articolati intorno ad un palazzo reale. Con ogni probabilità, si trattava della residenza di un illustre personaggio. Il “Palazzo Reale”, la più bella costruzione della città, si trovava a fianco della più grande fontana della zona urbana, che era collegata ad una sorgente, attraverso un canale delimitato da pietre, lungo ben 760 metri. Gli Incas avevano dunque concepito un sistema idraulico molto sofisticato e le loro terrazze, scaglionate lungo il pendio scosceso della montagna, erano altrettanto impressionanti. Circa cinque ettari di campi, questi appezzamenti agricoli fornivano mais e patate per gli abitanti della città e persino avocados per i più abbienti fra di loro. Assorbendo i circa duemila mm. di precipitazioni annuali, le terrazze assolvevano ad un’altra funzione essenziale: esse impedivano alla città di crollare sui versanti della montagna.

La città celeste

Per aprezzare Machu Picchu nel suo giusto valore, non é sufficiente contentarsi di studiare quello che storicamente contiene, ma anche le sue caratteristiche geografiche: la località si trova a 2.430 metri d’altezza sopra il livello del mare ed a 450 metri al di sopra dello stretto e tortuoso corso dell’Urubamba, il fiume che scorre nella valle sottostante e che alimenta il bacino dell’Amazzonia. Si tratta veramente di una città celeste ed il fatto che i suoi abitanti abbiano dovuto trasportare venti tonnellate di pietre fin sul suo sito, con l’aiuto di semplici slitte di legno, la caratterizza come una vera prodezza architettonica, al pari delle piramidi egizie. Ma chi é stato all’origine della sua costruzione?... Bingham porterà nella tomba questo quesito, ma sessant’anni dopo la sua morte, gli storici sembra abbiano finalmente trovato la risposta. Questo progresso di conoscenza noi lo dobbiamo all’antropologo John Howland Rowe (1918-2004) dell’Università di Berkeley. In effetti, egli ha scoperto un documento inca, che evocava un luogo di rifugio reale denominato “Picchu”. Secondo questo testo, i discendenti dell’imperatore Pachacutec o Pachacuti (1380-1460) sostenevano che il luogo doveva essere di loro proprietà. Non poteva che esserci una sola spiegazione: se i discendenti dell’imperatore affermavano di essere gli eredi legittimi di Machu Picchu, la città, a suo tempo, gli era appartenuta. La teoria, secondo la quale Pachacutec aveva ordinato la costruzione di Machu Picchu (intorno al 1450), era seducente per gli storici. Questo dirigente carismatico, temuto per la sua abilità in combattimento, aveva guidato l’impero inca nel periodo del suo apogeo. Egli era indubbiamente abbastanza potente da riunire la manodopera e le competenze necessarie alla costruzione di una città così prodigiosa. Il fatto che Machu Picchu sia stato un luogo di rifugio per l’imperatore ed i suoi consiglieri più intimi appare abbastanza plausibile. Il capo inca e la sua corte risiedevano a Cuzco, ma poiché la capitale era posta ad una altitudine ancora più elevata (3.400 metri), le condizioni climatiche risultavano particolarmente difficili in inverno. Risulta pertanto molto plausibile che, in questo periodol’aristocrazia inca si ritirasse temporaneamente a Machu Picchu, utilizzando un ponte segreto, costruito con corde intrecciate, per attraversare il fiume prima di insediarsi nel magnifico palazzo reale.

Grandezza e rovine

Machu Picchu é sopravvissuta al suo probabile fondatore (morto nel 1460). Anche se gli uomini di Pizarro non hanno mai scoperto questo sito, circa 10 anni dopo l’assassinio di Atahualpa, gli abitanti della città erano completamente scomparsi. Forse i suoi abitanti si sentivano troppo isolati in questa città celeste, oppure non potevano disporre di sufficiente alimentazione, Ma, a prescindere dalle ragioni alla base della loro partenza, essi comunque hanno abbandonato Machu Picchu, che verrà, a poco a poco, divorata dalla giungla. La città cadrà progressivamente nell’oblio fino al momento in cui Bingham non ne scoprirà le rovine, nel 1911, circa 350 anni dopo. Oggi, Machu Picchu é ben lungi dall’essere sconosciuta. Centinaia di migliaia di turisti affluiscono ogni anno in Peru per ammirare questo spettacolo fuori dal comune. Come Pachacutec ed Hiram Bingham III (4),  questi visitatori, provenienti da tutte le parti del mondo, sono costretti ad iniziare una lunga e faticosa ascensione a piedi fino alla sommità. Ma, qualche secondo dopo il loro arrivo, potranno avere la piena coscienza che il loro sforzo non é stato vano.

NOTE

(1Il vero scopritore di Machu Picchu sarebbe stato in realtà Augusto Berns (1842-1888), avventuriero e trafficante tedesco, che visitò per primo la città perduta nel 1867 e iniziò a depredarne le ricchezze col benestare del governo peruviano. Per quanto riguarda le sensazioni della salita a piedi al sito, mi sono riferito alle mie personali esperienze, in occasione della mia faticosa ascesa alle rovine della città, nell’ormai lontano ottobre del 2008;

(2) Separatosi nel 1933 dalla prima moglie dopo la sconfitta per la rielezione al seggio di senatore repubblicano nel Connecticut, si risposa nel 1937 con Suzanne Carroll Hill Bingham (1889-1962) di Baltimora;

(3) l’ultima nel 1948;

(4) che nel frattempo passato in politica diventerà Vice Governatore e Governatore del Connectivut (1925) e Senatore repubblicano del Connecticut (1924-1933); L’archeologo é sepolto nel Cimitero monumentale di Arlington in Virginia;

BIBLIOGRAFIA

  • Balm Roger. Discovery as autobiography: the Machu Picchu case. Terrae Incognitae  (2008) ;
  • Bingham Alfred Mitchell, Raiders of the Lost City American Heritage (1987);
  • Bingham Alfred MitchellExplorer of Machu Picchu : Portrait of Hiram Bingham (Triune Books, 1989) ;
  • Bingham HiramThe Possibilities of South American History and Politics as a Field for Research, reprinted in Latin American History: Essays in Its Study and Teaching, section III Pioneers, 1900–1918. Austin : University of Texas Press 1967;
  • Bouchard Jean-FrançoisLa arquitectura Inca, Madrid : Sociedad Estatal Quinto Centenario, 1991;
  • Fellman Bruce (December 2002). “Redescovering Machu Picchu”. Yale Alumni Magazine. Retrieved April 7, 2016
  • Rice MarkMaking Machu Picchu: The Politics of Tourism in Twentieth-Century Peru (U of North Carolina Press, 2018.

LA SCOMPARSA DI UNO STATO LA JUGOSLAVIA INVENTATO A TAVOLINO ALLA FINE DELLA GRANDE GUERRA

Nel 1999, ventuno anni fa, la guerra nell’ex Jugoslavia arriva al capolinea, grazie agli interventi armati votati dall’ONU, risultati decisivi. Tra gli altri provvedimenti, il territorio denominato Kossovo, abitato comunque da due differenti etnie, serba e albanese, viene posto sotto l’amministrazione ONU mediante l’impiego di un Presidio armato, tuttora presente. Le questioni etniche sono spesso servite come strumento di lotte sanguinose. Scopo di questa analisi è quello di ricordare, nel contesto della caduta dei regimi comunisti d’Europa, le responsabilità degli attori ed il processo di decomposizione dello Stato. Scomparsa di un paese artificiale, sogno “piemontese” della Serbia, attraversato da molteplici linee di frattura: etniche, religiose, ideologiche, che non poteva durare e che, tra l’altro, nel quadro della pulizia etnica, “fiore all’occhiello dei popoli balcanici”, aveva introdotto una pratica di eliminazione di massa cosiddetta delle “foibe”, tristemente patita, soprattutto dalle popolazioni italiane residenti in Istria, a Fiume e a Pola. Si racconta che, alla vigilia dello scoppio delle ostilità in Jugoslavia, era il 1991, alcuni osservatori, alla domanda circa la stabilità del paese, rispondevano concordi: “Se la Jugoslavia scoppia, se ne vedranno delle belle”. Questa espressione, vista in retrospettiva, sulla base degli eventi che si sono poi verificati qualche mese più tardi, conferma, in maniera ampia ed ironica, i timori che gli osservatori esterni presagivano circa la possibilità di implosione del paese. In effetti, nel giro di poco tempo, la scomparsa della Jugoslavia ha assunto la forma di una falsa evidenza: la Jugoslavia era scomparsa perché questo “mosaico di popoli, di religioni e di culture” non era una costruzione affidabile. Si trattava di uno “stato artificiale”, creato a seguito della 2^ Guerra Mondiale e della nuova configurazione dell’Europa e voluto, in special modo, dai Francesi ed in seconda battuta dagli Inglesi e dai Sovietici. La ricostituzione del paese balcanico aveva precipuamente una funzione anti italiana … ma anche lo scopo di disporre di uno stato potenzialmente in grado di controllare, indirettamente la regione balcanica, rivelatasi da sempre instabile e pericolosa. Purtroppo, una volta archiviata la quarantennale cappa di piombo del regime comunista, sono riemersi gli antichi conflitti e le ataviche divisioni etniche e confessionali, insieme all’odio accumulato negli anni della reggenza Titina, che hanno portato ad un inevitabile conflitto di tutti contro tutti. Certo, era auspicabile che si dimenticasse d’un colpo quanto l’idea di Jugoslavia aveva pervaso tutto il XIX Secolo. Uno stato federale di circa 24 milioni di abitanti, nel 1991, che dopo la rottura con Mosca aveva costruito un modello di socialismo originale (peraltro non molto difforme da quello d’oltre Cortina), rappresentava il risultato di una lunga storia di lotte per l’emancipazione politica condotte nell’ambito degli Imperi Austro-Ungarico e Ottomano. Più che il carattere artificiale dello stato jugoslavo occorre esaminare in primis il contesto politico dell’Europa agli inizi degli Anni ‘90, alla caduta dei regimi comunisti in Europa. Dopo gli interventi dissuasivi ONU e NATO, di contrapposizione e di sorveglianza, tuttora in corso, nei territori contesi dalle fazioni etniche storicamente nemiche, ci si è rapidamente abituati alla scomparsa della Jugoslavia. Forse perché tale evento ha coinciso con la fine della guerra fredda e con la caduta della cosiddetta Cortina di Ferro (ragionevolmente a causa del rifiuto, radicato nella mentalità occidentale europea, delle utopie pseudo progressiste e delle lotte ideologiche che “regolavano” la vita dei popoli in quelle regioni). Ma forse anche perché, in fondo, l’isolamento della Jugoslavia dalle vicende storico-politiche europee e sovietiche, scelto, voluto e mantenuto da Tito, non ha lasciato tracce nella memoria collettiva dei popoli europei. Tutto questo a maggior ragione nella memoria della maggioranza del popolo italiano, cui l’immagine di Tito e della Jugoslavia rammentano, tuttora, soltanto le foibe, i massacri degli italiani, l’occupazione e lo scippo dell’Istria, di Pola, di Fiume e l’occupazione di Trieste.  L’isolamento della Jugoslavia, quanto agli effetti della scarsa attenzione italo-europea per quei territori è pari soltanto a quello dell’Albania, anch’essa rimasta isolata da Europa e Russia a causa della scelta di porsi sotto la “protezione” cinese che, a dire il vero, non sortì alcun effetto sul progresso della piccola Nazione delle Aquile, se non quello di creare sfaticati, affamati, delatori e delinquenti. I conflitti jugoslavi, per le loro forme, allo stesso tempo nuove ed arcaiche, determinano storicamente il fenomeno della “crisi del pensiero sulla guerra”, messo in evidenza dallo storico Stefano Audoin Rouzeau (1955 - ), consistente nell’incapacità di comprendere le ragioni dei conflitti contemporanei, nei quali gli attori risultano molteplici e male identificati ed in cui spesso gli esiti positivi di natura militare non implicano automaticamente la vittoria politica.

1^ Fase: la Croazia

Il 25 giugno 1991, sulla base della crisi politica della Federazione jugoslava, le repubbliche di Slovenia e di Croazia dichiarano separatamente la loro indipendenza. Il tentativo di ripresa del controllo sulla Slovenia da parte delle autorità federali, si dimostra un conato puramente formale e si concreta in appena qualche giornata di combattimenti sporadici intorno alle caserme. Ma la guerra vera scoppia in Croazia il 30 agosto seguente, con l’attacco alla città di Vukovar (odierna Slavonia orientale nei pressi della frontiera con la Serbia), bombardata senza sosta da forze che portano ancora il nome di Esercito Popolare Jugoslavo, ma, di fatto, passato sotto il controllo del Governo di Belgrado. La crudeltà dei combattimenti e l’intensità delle distruzioni colpiscono emotivamente tutti gli osservatori stranieri presenti. Tuttavia l’attenzione degli osservatori internazionali rimane ancora focalizzata su Mosca, dove risulta appena sventato un colpo di stato che avrebbe potuto riportare al potere i comunisti conservatori. Dopo la conquista del 18 novembre 1991 delle macerie di Vukovar da parte dell’esercito jugoslavo, il bilancio fra morti e scomparsi appare immane. Più di 20 mila persone lasciano la regione in condizioni drammatiche. Da questo momento, la disintegrazione della Federazione jugoslava esce dal contesto delle guerre convenzionali: feriti, malati e rifugiati vengono mitragliati nell’ospedale, torturati e giustiziati sommariamente, fra i quali almeno 264 civili, secondo il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (TPIJ), che incomincia ad istruire uno specifico fascicolo a partire dal 1995. Il 3 gennaio 1992, entra in vigore il 15° cessate il fuoco fra la Croazia e quello che rimane della Federazione jugoslava (Repubbliche di Serbia e Montenegro), dove il leader uscito dai ranghi del partito comunista, Slobodan Milosevic (1941-2006) è riuscito nel corso del 1989 ad imporre la sua autorità. L’accordo definitivo viene negoziato fra i mediatori della Comunità Europea, i cui stati membri sperimentano la loro capacità di operare di concerto. Essi riconoscono, il 15 gennaio seguente, l’indipendenza slovena e croata, sollecitando anche la Bosnia-Herzegovina ad organizzare un referendum di autodeterminazione. La Macedonia otterrà il suo riconoscimento internazionale nel 1993. Dalla fine degli anni 1980, Milosevic strumentalizza a suo vantaggio il malessere sociale, la crisi del partito unico (Lega dei Comunisti jugoslavi) e del sistema federale. Di origine montenegrina, uomo grigio d’apparato del partito comunista, ma indiscutibilmente fine tattico, egli si è messo alla testa delle aspirazioni delle minoranze serbe del Kossovo e della Croazia. Nel 1990, mentre, “de facto”, la Lega dei Comunisti jugoslavi (il partito unico al potere) si è dissolta, vengono organizzate elezioni multipartitiche in ciascuna delle sei repubbliche jugoslave. Con l’eccezione della Serbia e del Montenegro, i risultati sanzionano la vittoria delle formazioni anticomuniste, che, nel caso della Croazia e della Bosnia Herzegovina, pretendono rappresentare un popolo su basi etniche.

Fase 2^: la Bosnia Herzegovina

La 2^ fase del conflitto si apre in Bosnia Herzegovina il 6 aprile 1992 con l’intervento di forze irregolari provenienti dalla Serbia e di quelle di una “repubblica serba” autoproclamata della Krajina (regione della Croazia), sostenute dall’esercito federale e da milizie locali che iniziano ad assediare la capitale Sarajevo. A partire dal novembre 1990, la repubblica serba della Krajina risultava governata da una coalizione di tre partiti nazionalisti concorrenti che avevano sovvertito i pronostici e battuto i partiti detti “cittadini” sulla base di un tacito accordo: una inattesa alleanza fra il Partito Democratico Serbo (SDS), guidato dal poeta e psichiatra Radovan Karadzic (1945- ), l’Unione Democratica Croata (HDZ), legata al partito al potere a Zagabria ed il Partito d’Azione Democratico (SDA), diretto da Alija Izebegovic (1025-2003), che intende difendere gli interessi dei “Mussulmani”. (Di fatto, è solo dagli anni 1970 che questa categoria di cittadini poteva essere considerata come nazionalità e nel 1994 il loro nome verrà rimpiazzato con il termine “Bosniaci” (Bosnjaci)). La santa alleanza bosniaca salta nell’ottobre 1991, dopo l’attacco a Vukovar ed a Dubrovnik (Ragusa) da parte dell’esercito federale jugoslavo: i deputati dei partiti SDA ed HDZ adottano un memorandum sulla sovranità della Bosnia Herzegovina, contro il parere del partito nazionalista di Radovan Karadzic, i cui rappresentanti fanno secessione per formare una loro propria assemblea nella stazione di sci di Pale, sulle alture di Sarajevo. Agli inizi del mese di aprile 1992, l’offensiva delle forze provenienti dalla Serbia ha come obiettivo le popolazioni civili e vengono perpetrati massacri in diverse località dell’est della Bosnia, in particolare a Bijeljina, Foca e Zvornik, facilitati dalla carenza di resistenza armata locale organizzata.

Di fronte all’ampiezza della coordinazione di queste azioni armate, gli USA, la conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE) ed il Consiglio dei Ministri della Comunità Europea, attribuiscono all’esercito federale jugoslavo la responsabilità degli eventi in corso. Belgrado nega qualsiasi responsabilità, giustificandosi con il fatto che si tratta ormai di una “guerra civile” su un territorio che sfugge ormai ad ogni sua giurisdizione. Gli USA di George Bush senior (1924-2018) cerca di disimpegnarsi. Gli Europei in cerca di unità di indirizzo, effettuano un tentativo di intervento, ma il loro fallimento nell’arrestare l’escalation della guerra nel corso del 1991-1992 li costringe a rivolgersi in direzione dell’ONU. Quest’ultimo decreta un embargo sulle armi su tutto il territorio ex jugoslavo, sanzioni economiche contro la Serbia ed il Montenegro, come anche l’invio di Caschi Blù in Croazia, inizialmente e quindi in Bosnia, nel corso del 1992. L’interminabile assedio di Sarajevo (aprile 1992-settembre 1995), amplificato dai media di tutto il mondo, viene percepito dai contemporanei come il simbolo di un conflitto postmoderno, che coniuga il disfacimento di uno Stato, fenomeni di milizie e presenza internazionale sotto l’egida dell’ONU, al quale la nuova era post guerra fredda sembra attribuire un ruolo più importante che mai. Ancora una volta l’incomprensione si mescola con l’orrore. Durante l’estate del 1992, i giornalisti occidentali denunciano l’esistenza di “campi” sui territori controllati dalle forze della autoproclamata “Repubblica dei Serbi di Bosnia Herzegovina (Serpska), dove le massicce esazioni ricordano violenze che si pensavano sradicate dal continente europeo. Le persecuzioni condotte dai vincitori, secondo criteri etnici, danno nascita alla nota formula della “Pulizia etnica” (1). Agli inizi del 1993, l’offensiva condotta da forze che si riconoscono in una “Repubblica croata d’Herceg-Bosna”, contro obiettivi civili e militari bosniaci, contribuisce ad apportare una confusione supplementare nell’interpretazione del conflitto. Numerose testimonianze confermano il sospetto sulla esistenza di un accordo esplicito riguardante la spartizione della Bosnia Herzegovina fra i presidenti Milosevic della Serbia e Franjo Tudjman (1922-1999) della Croazia. L’apparente impotenza internazionale e le violenze, specialmente contro i civili di tutte le regioni, la crescita dei discorsi etnico nazionalisti provocano dibattiti e mobilitazione in tutta l’Europa. L’assedio di Sarajevo dura più di tre anni e la guerra in Bosnia Herzegovina si conclude nell’autunno 1995 con l’armistizio del 12 ottobre. La spinta degli USA, la cui politica internazionale ha subito un cambiamento dopo l’insediamento alla Casa Bianca, nel gennaio 1993, del democratico Bill Clinton (1946- ), è stata essenziale (2). La NATO, con l’avallo dell’ONU, ha dato inizio alle operazioni di bombardamento aereo, incentrate sulle forze separatiste della repubblica serba autoproclamata, che circondavano Sarajevo e controllavano dal 50 al 70% del territorio della Bosnia Herzegovina. Gli Accordi di Dayton, negoziati dalla diplomazia americana e conclusi sotto patronato di diversi stati europei (vengono formalmente firmati a Parigi il 14 dicembre 1995), prendono in considerazione una situazione de facto della Bosnia Herzegovina in due entità federalizzate. Qualche tempo prima, fra il maggio e l’agosto 1995, l’esercito croato, sostenuto ufficiosamente dagli USA, riconquista i territori secessionisti della Krajina, provocando l’esodo, questa volta, di più di 200 mila civili serbi.

Fase 3^: il Kossovo

Gli accordi di Dayton non hanno riguardato la questione del Kossovo, popolato, per più dell’80%, da Albanesi e che, alla fine degli anni 1980, veniva percepita come la minaccia più pericolosa per l’unità jugoslava. Di fatto, la questione era diventata un problema interno alla Federazione delle Repubbliche della Serbia e del Montenegro. Dopo la soppressione dell’autonomia di questa provincia, avvenuta nel marzo 1989 da parte di Milosevic, sul luogo si era costituita, con l’aiuto della diaspora albanese, una società parallela in un clima di viva repressione. Il conflitto ha inizio nel 1998 con la comparsa di una organizzazione armata clandestina, l’Esercito di Liberazione del Kossovo, che conduce una guerriglia sistematica contro i simboli dello Stato. Dopo mesi di infruttuosi negoziati con Milosevic, la NATO interviene nel marzo 1999 senza il mandato dell’ONU, obbligando Belgrado a cedere dopo 78 giorni di bombardamenti, dichiarati come mirati, ma in realtà accompagnati da terribili effetti secondari. Le forze di Belgrado, impotenti di fronte all’attacco aereo, effettuano, durante questo periodo, esazioni particolarmente gravi contro la popolazione albanese, di cui circa la metà (intorno ad 1 milione di persone) vengono cacciate dalle loro case. La decomposizione effettiva della Jugoslavia è praticamente durata tutto il decennio 1990: dall’estate del 1990, momento in cui la protesta della minoranza serba di Croazia (contro lo statuto che le era stato accordato dal nuovo governo di Zagabria) si trasforma in ribellione armata (“crisi di Knin”), fino al giugno 1999, quando il Kossovo viene posto sotto amministrazione ONU. La Jugoslavia ha certamente continuato ad esistere nominalmente fino al 2003, momento in cui lo stato successore ha assunto la nuova denominazione di Serbia-Montenegro, mettendo fine ad una finzione, quella della continuità statale con il vecchio Stato comune. La decomposizione è quindi proseguita con l’indipendenza del Montenegro (2006) e quindi con quella del Kossovo (2008), il cui riconoscimento da parte della Serbia risulta ancora oggi oggetto di trattative politiche. 20 anni più tardi, questa decomposizione è ancora all’opera nella difficile ricostruzione della narrazione su questo passato recente.

La missione trappola dei Caschi Blù

La crisi jugoslava è marcata dall’idea che una “comunità internazionale” ha il dovere di impedire o di fermare il dramma. Orbene, non solo la presenza dei soldati della pace in mezzo ad un conflitto deflagrato non ha impedito nulla, ma, molto spesso, ha aggravato la situazione. La crisi è risultata particolarmente sensibile nel luglio 1995, quando la città di Srebeniça, nella Bosnia orientale, viene conquistata dall’esercito della repubblica serba autoproclamata (Serpska), guidato da generale Ratko Mladic (1943- ). Questa località, nella quale si sono rifugiati migliaia di Bosniaci, era stata dichiarata Zona di Sicurezza, demilitarizzata e posta, dal 1993, sotto la protezione dell’ONU. Incapaci di mantenere il controllo della città, i Caschi Blù lasciano entrare i soldati di Mladic. Gli assalitori, a quel punto, danno il via ad un massacro di circa 8 mila persone di origine mussulmana. Un atto che il TPIJ qualificherà, qualche mese più tardi, come deliberato “genocidio”. I militari della missione dell’ONU hanno molto spesso evidenziato l’inadeguatezza dei loro mezzi e dei loro compiti, l’obsolescenza delle concezioni della guerra applicate al caso concreto e delle Regole d’Ingaggio (ROE), nonché l’assurdità del loro mandato (3). Con un compito di mantenimento della pace in un contesto di guerra aperta, i Caschi Blù si sono spesso trovati nella trappola dell’alibi dell’attendismo politico, fino ad essere stati presi, diverse volte, in ostaggio ed umiliati. Quando i gradi più elevati hanno tentato di far rispettare il loro mandato con la forza, essi sono stati spesso richiamati all’ordine dalla stessa ONU, come lo ha evidenziato nel 2007, Sir Rupert Antony Smith (1943- ), Comandante della Forpronu in Bosnia Herzegovina nel suo libro, proprio durante l’ultima fase del conflitto. Più di 20 anni dopo, il trauma subito dai soldati stranieri coinvolti continua ad essere raccontato nelle testimonianze, che denunciano le perversità ed i preconcetti di questo intervento, che, nei fatti hanno spesso aiutato proprio la violenza delle fazioni (4). Al momento dei fatti, si è sovente parlato di impotenza (5), ovvero del fallimento della Comunità internazionale. Alla fine dei conti, solo l’intervento umanitario è stato l’intervento più visibile ed efficace: fra questi l’istradamento ela distribuzione dell’aiuto, che è risultato la principale missione dei Caschi Blù, composto da militari di molte nazioni europee. La disintegrazione della Jugoslavia avviene nel momento in cui la Comunità Europea - diventata Unione Europea nel 1993 dopo il Trattato di Maastricht - cerca di affermare la sua capacità di essere non solamente un contesto pacifico, ma anche un nuovo orizzonte di attese positive, specie di fronte al crollo del comunismo reale, che lascia, a sinistra, un vuoto ideologico. Ma, in queste condizioni, tutta la regione risulta propizia per diventare uno spazio di proiezione delle paure degli Europei. Ritornano a galla i discorsi stereotipati che assimilano i Balcani ad un territorio arretrato e barbaro, nel quale il tempo si è fermato e dove il frammischiarsi dei popoli non può essere che la sorgente di nuovi atavici conflitti. Questi discorsi trovano forza, come lo dimostra la storica bulgara Maria Todorova (1949- ), nella storia lunga delle relazioni che gli Occidentali mantengono con questo spazio periferico, sottomesso agli interessi delle potenze e degli imperi europei (6). L’analogia con le forme di esazione, i simboli del periodo nazista e della seconda Guerra Mondiale, risultano onnipresenti e rinforzano questa interpretazione, suscitando, l’imperativo categorico di agire per lottare contro il ritorno dei vecchi demoni. In ogni caso, la mobilitazione internazionale non ha di certo impedito che il bilancio degli anni di guerra fosse molto pesante: la sola Bosnia Herzegovina lamenta più di 100 mila morti, di cui la metà civili). Queste guerre sono state segnate da una operazione di assedio, che si credeva ormai relegata ad altre epoche del passato, da massacri di civili (soprattutto agli inizi del conflitto, fra il 1991 ed il 1993), da un massacro nel 1995, qualificato come “genocidio”, da milioni di rifugiati e di sradicati e da distruzioni massicce del patrimonio culturale e storico. Questo conflitto segna anche la fine della fiducia nelle forme di intervento internazionale immaginate nel dopo 1945, specialmente quella di Caschi Blù. Anche l’innovazione giuridica del Tribunale Penale Internazionale per la Jugoslavia (primo del genere, prima di quello del Rwanda e prima della creazione della Corte Penale Internazionale dell’Aja, nel corso del 2002) ha mostrato, con ogni evidenza, i suoi limiti. Costituito nel 1993 per impulso franco americano, questo Tribunale, che ha la sua sede in Olanda, è apparso piuttosto, come una ammissione di debolezza, piuttosto che un mezzo effettivo di risoluzione della crisi. Esso ha effettivamente funzionato solo a partire dalla messo in stato di accusa dei più alti dirigenti della federazione jugoslava, in particolare del generale Ratko Mladic e di Radovan Karadzic nel 1995, quindi Slobodan Milosevic nel 1999. Peraltro, esso ha visto i suoi effetti limitati, da un lato da forme di strumentalizzazione politica, di cui è stato oggetto (come anche nel contesto del processo di integrazione degli Stati successori della Jugoslavia nell’Unione Europea a partire dal 2000) e dall’altro per la logica giuridica applicata, che ha privilegiato la responsabilità individuale e non collettiva o politica dei crimini commessi.

Guerra civile o guerra d’indipendenza ?

Il dibattito sulla “natura” del conflitto risulta doppiamente marginalizzato da quello sulle responsabilità. Altrove, al di fuori della Serbia, l’idea di “guerra civile” è stata a lungo contestata come un modo di negare la responsabilità degli attori istituzionali. Ma la concezione ampia della “guerra civile” che si imposta nello studio delle relazioni internazionali negli anni 2000 designa il caso specifico un conflitto infra-statale, dove possono intervenire attori istituzionali e che spesso possiede una dimensione internazionale e multi statale (7). Da parte loro le autorità croate hanno parlato di guerra patriottica (domovinskki rat) e questo termine si è imposto, sia nelle commemorazioni ufficiali, sia nell’insegnamento della storia. Dal punto di vista degli Stati secessionisti si tratta quindi di una guerra d’indipendenza. Risulta tanto più difficile spiegare i motivi di questa guerra, proprio perché i suoi attori sono male identificati. Occorre considerarvi l’intervento di Stati, delle loro forze armate, di milizie (locali o politico mafiose), di militari o di civili ? In effetti, gli uomini mobilitati hanno avuto statuti diversi: militari di carriera, coscritti, riservisti, volontari - spesso solo per il fine settimana - o ancora miliziani nazionali o internazionali. La percezione di questo conflitto si è anche modificata con la trasformazione della concezione della guerra: negli anni 1990, i giovani arruolati vengono visti come “giovani” o padri di famiglia, piuttosto vittime che soldati. Se la qualificazione di “conflitto etnico” rimane, per certi aspetti, improprio, risulta incontestabile che la politicizzazione delle entità etniche è stata un fattore decisivo. In questo processo, i dirigenti politici ed intellettuali hanno svolto un ruolo di primo piano. In effetti, è a nome del “popolo” che Milosevic ha ottenuto l’adesione di milioni di cittadini in Serbia e nel Montenegro, in Bosnia Herzegovina ed altrove. Ma questo campione della “causa dei Serbi”, in un contesto di sfaldamento dei riferimenti della società socialista, ha costantemente giocato sulle ambiguità fra l’accezione etnica e sociale del termine “popolo” (narod). In questo atteggiamento, egli risultava sostenuto da un buon numero di scrittori e di intellettuali che hanno esaltato una identità serba, allo stesso tempo nostalgica di un passato glorioso e segnata dalla retorica del vittimismo, basato sulla paura del declino delle minoranze serbe nel Kossovo o nella regione della Krajina (Croazia). Ma essi non sono stati i soli. Dalla fine degli anni 1980, mobilitazioni collettive vengono orchestrate o sfruttate dai differenti poteri, in Serbia, nel Kossovo, in Croazia ed anche in Slovenia. Il presidente croato Tudjiman, vecchio partigiano e generale comunista, convertito nel corso degli anni 1980 al nazionalismo dagli accenti mistici, venati di revanchismo, non aveva esitato, dal suo arrivo al potere nel 1990, a rimettere in auge i simboli dello stato croato ustascia, alleato dei nazisti, in particolare la bandiera a scacchiera rossa ed argento e la kuna (corona) come moneta. Slobodan Milosevic, nei tredici anni del suo regno incontrastato sulla Serbia e di quello che rimaneva della Jugoslavia (1987-2000), ha utilizzato la finzione della continuità fra la Jugoslavia e lo Stato della Serbia-Montenegro, per rivendicare i suoi diritti sull’eredità del vecchio stato, ma anche per fare accettare la sua politica di repressione delle pubbliche libertà e delle minoranze e per giustificare l’entrata in guerra in nome della “difesa del popolo e della Jugoslavia”. A sostegno dell’argomento etnico e per giustificare il crollo del paese, sono circolate, durante il conflitto, numerose carte di attestazione di nazionalità, anche in Europa. Esse sono comunque da prendere in considerazione con grande cautela. I diversi popoli balcanici hanno una lunga storia di coesistenza e di meticciato nell’ambito dell’insieme imperiale austro-ungarico, ancora attivo in una parte della penisola agli inizi del 20° secolo. Le carte di nazionalità sono state emesse dopo censimenti che hanno testimoniato una scelta fatta dai cittadini fra le categorie fluttuanti (fra queste proprio i mussulmani). Peraltro, queste carte, spesso approssimative e facili da essere manipolate politicamente, danno minore importanza ai centri urbani, luoghi di incontro e di meticciato e le stesse carte ignorano la categoria “jugoslava”, introdotta nel 1961. Quando dette carte risultano abbastanza precise, esse consentono di mettere in evidenza la grande eterogeneità etnica rappresentata dallo spazio “jugoslavo”. Le categorie etniche, anche se mutevoli nel tempo, non sono, in ogni caso, delle pure finzioni. I rapporti fra questi gruppi, in particolare nelle zone di forte mescolanza., come la Bosnia, risultano, da lunga data, marcati dalla competizione per il possesso delle terre, per il potere nell’amministrazione o nell’Esercito, come anche dall’esistenza di reti concorrenziali di associazionismo, come le associazioni culturali, sportive o religiose. Tutto questo non vuol dire, comunque, che le differenze etniche e le appartenenze nazionali siano state primordiali nei rapporti sociali della Jugoslavia della fine degli anni 1980. E’ il contesto del crollo del paese e quindi del conflitto aperto che ha poi lasciato lo spazio libero per il radicamento “dell’etno-ideologia”. Rimane comunque da comprendere, qui come altrove, come la politicizzazione della guerra e le strutture comunitarie etniche o religiose abbiano potuto svolgere un ruolo decisivo nei “crimini contro il vicino”, specie nella Bosnia Herzegovina (8).

Le cause del crollo

Lo sconvolgimento della fine del comunismo nell’Europa dell’Est e nell’URSS sono dunque la causa più immediata della destabilizzazione politica, economica e sociale che prelude alla guerra. La dissoluzione, dal gennaio 1990, della Lega dei Comunisti della Jugoslavia determina, come nei regimi vicini dell’Europa centrale, un vuoto politico e l’assenza di alternative politiche a livello federale, mentre l’organizzazione di elezioni multipartitiche in ciascuna delle repubbliche genera la crisi aperta della Federazione jugoslava. Gli anni 1980 sono stati difficili. La crisi economica e sociale si è aggravata con la crescente difficoltà di acquisire nuovi crediti ed investimenti. Se, in precedenza, la Jugoslavia li otteneva abbastanza facilmente presso l’URSS, gli USA o altri paesi occidentali, in quanto stato non allineato, l’arrivo al potere a Mosca di Mikhail Gorbacev (1931- ), nel 1985, ha reso meno strategica la sua posizione sul piano internazionale. L’ultimo tentativo di salvare la Federazione è stata la riforma economica e monetaria del 1989-1990, che ha introdotto l’economia di mercato, intrapresa dall’ultimo governo federale guidato da Ante Markovic (1924-2011). I provvedimenti hanno indubbiamente consentito di controllare l’inflazione e di stabilizzare provvisoriamente l’economia, ma la riforma è stata sabotata dalle forze che desideravano la fine della Federazione, vale a dire dai governi di quasi tutte le repubbliche.

Le responsabilità di Tito

Ma il crollo non sarebbe stato così rapido senza una decomposizione lenta del sistema, derivata dal fallimento maggiore dei dirigenti comunisti e dello stesso fondatore della seconda Jugoslavia nel 1945, Josip Broz Tito (1892-1980) nella democratizzazione del regime. In effetti, Tito, autocrate e staliniano prima di sfidare il suo protettore russo, ha cercato di mantenere il suo potere personale, al prezzo di diverse virate ideologiche, fino a diventare garante ultimo dell’unità jugoslava (9). Dopo la sua rottura con Stalin nel 1948, Tito punta sul mantenimento delle forme di proprietà privata e delle libertà culturali, artistiche ed individuali, come anche su una forte autonomia di gestione delle imprese, in particolar modo per dare soddisfazione all’Occidente. Il modello originale del socialismo viene costruito, a poco a poco, ed acquisisce le sue patenti di nobiltà quando Tito si afferma come leader dei “Paesi non allineati” sul piano internazionale, in occasione della conferenza costitutiva del movimento a Belgrado nel 1961. Tuttavia, sul piano interno, quanto su quello internazionale, l’autogestione viene spesso condotta con molta improvvisazione ed opportunismo, con un gusto per la riorganizzazione permanente per eliminare gli oppositori interni, fatto che, peraltro, contribuisce, con il passare degli anni, alla sclerosi del sistema. Tale stato di fatto porta a trasformare l’apparato dello Stato in una guscio vuoto per appetiti privati, rendendo, in tal modo, fittizia la partecipazione dei lavoratori. Allo stesso tempo, la repressione politica, diventata strumento di governo, tiene sotto mira tutti quelli che contestano il potere del Partito e del suo capo. Agli inizi degli anni 1970 la risposta che Tito fornisce alle richieste di democratizzazione del paese, passa inizialmente per un maggiore potere alle repubbliche. La riforma costituzionale del 1974 completa la federalizzazione già rilevante del paese, in particolare in materia di sicurezza interna, di sviluppo economico, di educazione, di affari culturali, con il rischio di accentuare in maniera irreversibile, le differenze fra le repubbliche e, soprattutto, di alterare la loro mutua solidarietà. Mantenendo il sistema di governo del partito unico, Tito riesce ancora a controllare il potere delle burocrazie locali. Dopo la sua morte nel 1980, il paese verrà governato da un comitato presidenziale, composto di rappresentanti delle unità federali che, però, non sarà più in condizioni di riformare il sistema. Determinate pratiche politiche per assicurare l’equilibrio fra i popoli si sono rivoltate, i fin dei conti, proprio contro lo stesso Partito, specialmente con il provvedimento della “chiave nazionale”. Questa misura, instaurata nel 1974, in seno alla Lega dei Comunisti, quindi nel Parlamento della Bosnia Herzegovina (nei quali alcuni seggi venivano riservati per ciascuno dei popoli serbi, croati e mussulmani), è quella che ha poi consentito l’affermazione dei partiti nazionalisti nel 1990. A tutto questo vanno aggiunti i lutti non ben regolati dopo la presa di potere da parte dei Comunisti che hanno riattivato lo stato jugoslavo al termine della seconda Guerra mondiale. In effetti, fra il 1941 ed il 1945, una terribile guerra civile aveva devastato l’antico regno di Jugoslavia, smembrato fra lo stato indipendente della Croazia (diretto dagli Ustascia, alleati della Germania nazista) ed i territori occupati dai nazisti e dai loro alleati (Italia, Ungheria e Bulgaria). Tale situazione è stata anche alimentata dalla lotta fra i movimenti di resistenza fra loro concorrenti (comunisti e nazionalisti). Negli anni 1990, si è potuto ancora constatare a che punto le memorie dolorose della seconda Guerra Mondiale erano rimaste sotto le “ceneri”. Un argomento altrettanto grave come il numero delle vittime nei campi di concentramento diretti dagli Ustascia non era stato ancora chiarito.  Nel 1991, una volta scoppiata la guerra, la spartizione dell’eredità è stata un altro potente motore alla base dei contenziosi. Comandanti di guerra, trafficanti e reti di influenza hanno lottato per mantenere o appropriarsi delle risorse pubbliche. Come ovunque nei vecchi paesi comunisti, la prima metà degli anni 1990 ha visto il nascere di fortune private sulle spoglie del sistema precedente. Nel caso della Jugoslavia questa lotta costituirà ulteriore benzina per il conflitto.

Uscite dalla guerra

20 anni dopo il ritorno alla “pace”, le forme assunte dalle uscite dalla guerra determinano anche la maniera di interpretare gli avvenimenti. Malgrado le centinaia di lavori sull’argomento, resta ancora una sensazione di opacità. La storia della Jugoslavia nel 20° secolo ha tendenza ad essere reinterpretata alla luce di questi esiti, ad esempio il conflitto o la competizione dei popoli che la componevano e molto meno sulla base di una idea culturale prima di essere politica, ovvero quella di unificare e di raggruppare gli Slavi del Sud. Un’altra strada, sopra esaminata è stata quella di interpretare i conflitti degli anni 1990 come scontri “etnici” o nazionali, quando la politicizzazione delle appartenenze etniche è stata spesso e piuttosto una conseguenza dei conflitti e della maniera in cui è stata imposta la pace. In tal modo, nella Bosnia Herzegovina, l’etnicizzazione dei rapporti sociali si è considerevolmente rinforzata nel contesto della divisione del paese in due entità e della decentralizzazione messa in atto dagli Accordi di Dayton: con le sue conseguenze in maniera di educazione, di mobilità delle persone o di funzionamento politico. Ovunque nella regione, il marasma economico e l’assenza di prospettive di una vita migliore contribuiscono ad accrescere questo processo. A tutto questo va aggiunto il bilancio spesso molto debole dei molteplici interventi internazionali nella gestione del dopo guerra, specialmente nella Bosnia Herzegovina e nel Kossovo.

Il paese scomparso gioca oggi un ruolo ambiguo nella memoria dei cittadini degli stati successori. Mentre le storiografie ufficiali ne hanno fatto un facile elemento (capro espiatorio), colpevole di tutti i mali del presente, la cosiddetta “jugonostalgia”, diffusa ed ambivalente risulta, a sua volta, onnipresente. Dagli anni 2010, una nuova corrente di storia sociale e culturale indaga nuovamente sul periodo socialista (10). Uno dei suoi obiettivi è una lettura alternativa a quelle di tipo escatologico che considerano la guerra come il seguito logico della Jugoslavia. Questi storici si interessano alla vita quotidiana dei cittadini ordinari, alle particolarità del regime socialista e approfondiscono l’argomento dei passaggi complessi fra la rottura dei legami sociali e le rivendicazioni nazionaliste, la richiesta di democratizzazione ed il ripiegamento dello spirito comunitario, allo scopo di mettere in particolare risalto gli elementi che hanno determinato l’esplosione della violenza.

NOTE

(1Krieg Planke A., “Purification etnique, une formule et son Histoire”Edizioni CNRS, 2003;

(2) Sulla politica estera americana e la dissoluzione della Jugoslavia vds: Mandel M. “Morire per Sarajevo ? Gli Stati Uniti e la dissoluzione della Jugoslavia”, Edizioni CNRS, 2013;

(3Smith Rupert, “L’utilità della forza. L’arte della guerra oggi”, Economica, 2007; e gen. Morillon, “Credere ed osare. Cronache di Sarajevo”. Grasser, 1993;

(4Ancel G., “Vento glaciale su Sarajevo”, Le Belles Lettres, 2017 (fra le ultime opere apparse sull’argomento);

(5Hassner P., “La violenza e la pace. Dalla bomba atomica alla pulizia etnicaEsprit, 1995; Seuil, 2000;

(6Todorova Maria, “Immaginario dei Balcani”, Oxford University Press, 1997 e Edizioni EHESS, 2011;

(7Relazioni Internazionali n. 174 e n. 175 (2018), dedicato alle guerre civili del 20° secolo;

(8Bougarel X., “Bosnia, anatomia di un conflitto”, La Decouverte, Paris, 1996;

(9Pirjevec Joze (sloveno), “Tito, una vita”, 2011 e Edizioni CNRS, 2017;

(10) Vds, ad esempio i lavori di Hannes Grandits sul turismo; di Igor Duda sull’educazione socialista, di Radina Vucetic sulla americanizzazione della cultura, ancora quelli di Goran Music e Rory Archer sulle mobilitazioni operaie in Serbia negli anni 1980.

FRANCESCO 2° GONZAGA, un genio del voltafaccia

FRANCESCO 2° GONZAGA,

un genio del voltafaccia

Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" (www.graffitionline.com),

del mese di ottobre 2020, con il titolo “I GONZAGA, MANTOVA E LA

CAPACITA’ DI CONSERVARE IL DOMINIO”

http://www.graffiti-on-line.com/home/opera.asp?srvCodiceOpera=1950

Per più di 30 anni, machiavellico e contorto, questo condottiero, marchese di

Mantova, moltiplica gli accordi con i Milanesi, i Veneziani ed i Francesi. Una

vita riempita di vane promesse, ma che gli consentiranno di conservare la sua

città.

Circondato da potenti vicini, quali il Ducato di Milano, la terraferma di Venezia e

lo Stato Pontificio, il marchesato di Mantova deve la sua fragile sopravvivenza

alla pace armata che regna in Italia da dopo la Pace di Lodi del 1454. La famiglia

Gonzaga, che ha assunto il governo di Mantova dopo un sanguinoso colpo di mano

nel 1328, non dispone di una forte legittimità, ma ha saputo mantenersi al potere

tessendo una matassa di legami matrimoniali. Il marchese Federico (1441-1484),

sposato con una principessa tedesca, è riuscito a realizzare dei superbi

matrimoni per i suoi figli: le sue figlie hanno sposato dei principi italiani ed una di

esse persino un cugino del re di Francia, Gilberto di Borbone-Montpensier

(1443-1496). Per quanto concerne suo figlio Francesco 2° (1466-1519), egli lo ha

accasato con Isabella d’Este, figlia del Duca di Ferrara. Nonostante questo, la

sola sopravvivenza non basta, occorre assicurare il loro rango fra le famiglie

principesche ed i Gonzaga non hanno altra risorsa che offrire, o meglio vendere, i

loro servigi militari agli stati più ricchi. Essi, di padre in figlio, si sono guadagnati

la fama di esperti condottieri.

Quando nel 1484 Francesco 2° sale, alla morte del padre, al trono di Mantova egli

appare dotato di tutte le qualità che ci si aspetta da un Gonzaga. Intelligente e

colto, egli prosegue il brillante mecenatismo dei suoi antenati. Il muovo marchese

adora giostrare nei tornei, curando in tal modo l’immagine di guerriero ed a tal

fine ordina le sue armi presso i migliori artigiani d’Italia e di Germania ed alleva

nelle sue scuderie cavalli la cui fama è nota in tutta Europa. In un mondo

piuttosto pacifico, i primi anni del suo regno si svolgono senza incidenti, mentre il

gioco politico viene ad essere bruscamente sconvolto dall’arrivo intempestivo dei

Francesi di Carlo 8° (1470-1498), alla fine dell’estate del 1494, che si reca alla

conquista del Regno di Napoli. Per la mediazione di Gilberto di Montpensier, il re

spera di attirare nella sua orbita il marchese di Mantova, al quale vengono

proposti titoli e denaro. Francesco, pur allettato, si vede costretto a declinare

l’offerta, in quanto risulta già legato da un contratto con la Repubblica di

Venezia. I Veneziani, d’altronde, non possono accettare l’intrusione francese in

Italia e, sotto la loro egida, viene formata nella primavera del 1495 una vasta

lega antifrancese, al comando del Gonzaga, che riceve il compito di scacciare

l’invasore.

Carlo 8°, per non correre il rischio di ritrovarsi bloccato a Napoli, decide di

rientrare in Francia, lasciando dietro di sé la metà del suo esercito. Le truppe

francesi risalgono la penisola, ripassano senza difficoltà gli Appennini, quando, nel

momento di attraversare il fiume Taro, entrano in contatto, il 6 luglio 1495, con

le truppe della Lega. Il marchese, che dispone di effettivi tre volte superiori a

quelli francesi, elabora un piano sottile: lasciare di fronte al re un sottile velo di

truppe ed effettuare con la massa della sua cavalleria un movimento avvolgente

allo scopo di annientare i Francesi e di catturare Carlo 8°.

Ma nulla avverrà secondo quanto preventivato: l’esercito francese attraversa il

fiume, superando le fragili resistenze frontali, mentre la cavalleria francese, con

un’azione di retroguardia, riesce a resistere alla manovra del Gonzaga. La

giornata, ricordata come la Battaglia di Fornovo, non celebra un vero vincitore,

ma Carlo 8°, affrettando la sua marcia, potrà rientrare in Francia senza ulteriori

fastidi. Francesco 2°, per non perdere la faccia, dichiara la sua vittoria e, per

festeggiare la giornata, comanda al Mantegna un retabolo: la Madonna della

Vittoria. I Veneziani si vedono costretti a “digerire” questa strana vittoria. Essi

inviano, poco tempo dopo, il loro condottiero in aiuto agli Spagnoli, che stanno per

ottenere una netta vittoria sui Francesi nel Regno di Napoli. Il marchese, che ha

assorbito lo spirito della famiglia, cerca di far fuggire il suo cognato Gilberto di

Montpensier, ormai circondato dagli Spagnoli, ma questi preferisce morire sul

campo insieme ai suoi uomini. Tutto quello che vi guadagna il marchese da questa

azione è il … sospetto di tradimento.

L’affare francese non avrebbe avuto probabilmente alcun seguito se Carlo 8°, nel

1498, non fosse morto, lasciando il trono a suo cugino Luigi 12° Valois d’Orleans

(1462-1515). Questi ritiene di poter vantare dei diritti sul Ducato di Milano, dove

regna l’usurpatore Ludovico Sforza, detto il Moro (1452-1508). I Veneziani

sembrano, stavolta, pronti a sostenere le pretese francesi. Il marchese di

Mantova si ritrova impelagato in un incredibile imbroglio diplomatico, nel quale

tutti cercano di assicurarsi i suoi servigi. Siccome Francesco non crede ad un

rapido intervento francese egli accetta, il 31 maggio 1498, la carica, decisamente

allettante e lucrosa, di comandante delle truppe milanesi. Tuttavia il marchese si

inquieta con quello che stanno preparando i Veneziani: in caso di guerra i suoi

stati sarebbero presi sul rovescio dalle truppe di Venezia ed in tale prospettiva,

nell’autunno seguente, egli preferisce interrompere il suo contratto con Milano,

intascandosi definitivamente i 100 mila ducati di acconto.

Egli si reca a Venezia, dove si getta ai piedi del Doge, giurandogli di consacrarsi

anima e corpo alla causa della Repubblica (20 ottobre 1498). L’ambasciatore

milanese, che assiste nauseato alla scena, vi intravede l’intervento di satana in

persona ! Tuttavia, il marchese non tarda a pentirsi del suo voltafaccia, poiché

Venezia, che paga molto meno di Milano, gli ordina di andare a combattere in

Toscana. Francesco 2° non ha alcuna intenzione di eseguire l’ordine e si rivolge

nuovamente al Duca di Milano, che accetta di riprenderlo al suo servizio, il 1°

novembre, dandogli persino un aumento di stipendio. “Ecco la Signoria (leggi

Firenze) sbarazzata di un grande pazzo !” sarà il commento ironico di Papa

Alessandro 6° Borgia (1431-1503), mentre a Venezia sono tutti pieni di rabbia.

Orbene, nel corso del mese di febbraio 1499 i Veneziani firmano una alleanza con

la Francia contro Milano ed il marchese si vede perduto. Con una incredibile

sfrontatezza egli si avvicina ai Francesi ed ottiene che questi perorino la sua

causa presso il Senato veneziano, che si lascia convincere. Francesco decide a

quel punto (11 agosto) di “gettarsi nelle braccia e nel seno materno della

Repubblica e di metter in suo potere la sua persona, il suo stato, tutti i suoi beni,

ivi compresa la sua anima”, accordo segreto, in quanto ufficialmente egli continua

ad essere pagato dal Duca di Milano. Di fatto egli non porterà alcun soccorso al

Duca di Milano, allorché le truppe francesi conquisteranno i suoi stati nell’agosto

1499.

Ludovico Sforza, tradito da ogni parte, è costretto a fuggire e Luigi 12°

attraversa le Alpi per venire a visitare il suo nuovo ducato. Agli inizi del mese di

ottobre, il marchese si unisce al re e partecipa a tutte le feste organizzate dai

Francesi in Lombardia. Luigi 12°, che vuole rinforzare le sue posizioni italiane,

ricopre di onori il Gonzaga, accordandogli una compagnia d’ordinanza, una

pensione ed il collare dell’Ordine di S. Michele. Quanto al marchese, egli offre

dei cavalli, dei falconi e dei cani da caccia a tutti i membri influenti della corte

francese. Poi alla fine tutti rientrano alle loro sedi.

Sfortunatamente per Francesco Gonzaga egli dovrà presto provare la sua

fedeltà. Nel corso dell’inverno, Ludovico Sforza, con il sostegno dell’imperatore

Massimiliano 1° d’Asburgo o d’Austria (1459-1519) riparte alla conquista del

suo ducato e dal 5 febbraio 1500 rientra a Milano, acclamato dalla folla. Durante

questa campagna lampo, il marchese ha ritenuto prudente inviare qualche sparuto

rinforzo al duca, come anche una lettera di felicitazioni per la sua vittoria.

Calcolo sbagliato, in quanto, già dalla primavera, i Francesi riusciranno a

catturare Ludovico e riconquisteranno il Milanese. Luigi 12° che non “digerisce” il

tradimento del marchese, ipotizza la spartizione dei suoi stati con i Veneziani.. Il

marchese, spaventato, bombarda la corte francese di lettere lacrimevoli ed

ottiene, alla fine, il suo perdono in cambio di una pesante ammenda.

Strettamente sorvegliato dai Francesi e dai Veneziani, negli anni seguenti si

tiene abbastanza tranquillo, ma non suscita di certo la fiducia dei suoi vicini. Nel

1503, Luigi 12° affida a Luigi 2° de La Tremouille (1460-1525) ed al marchese

una vasta spedizione per riconquistare il regno di Napoli agli Spagnoli. Francesco

ritarda per quanto può la sua partenza, ma quando, nel luglio, egli raggiunge

l’esercito francese, a Parma, egli lo trova decimatao da una epidemia. Sotto i suoi

occhi il De la Tremouille viene abbattuto da un attacco di febbre, quanto basta al

Gonzaga per riprendere la strada di casa, dove per oltre un mese si farà curare

di un male immaginario. Allorché, in agosto, dopo molteplici sollecitazioni egli

accetta di ritornare ad assumere il comando delle truppe reali, sarà per portarle

al disastro.

La situazione politica di Mantova diventa nuovamente critica cinque anni più tardi

allorché la Francia ha una disputa con Venezia. Nel 1509, il re conduce di persona

un formidabile esercito per la conquista della terraferma veneziana. Preso fra

due fuochi, il marchese resta fedele all’alleanza francese, ma, col pretesto di una

forte febbre, parteciperà alla campagna in maniera intermittente e sarà persino

assente alla battaglia di Agnadello (19 maggio 1509). Assenza che gli varrà, da

parte del re di Francia, il titolo di “poltrone”. Offeso, il marchese si rimette in

marcia agli inizi di agosto, ma per essere catturato dai Veneziani. Condotto a

Venezia egli vi viene accolto al grido di “traditore, traditore” e per un momento

pensa di essere perduto. Ma nello stesso tempo sua moglie inonda le corti

europee di lettere piagnucolose ed il sultano ottomano Bejezit 2° (1447-1512),

che intratteneva con il marchese legami di amicizia, effettuerà delle forti

pressioni sui Veneziani affinché rilascino il prigioniero. Questi osserverà in

seguito fino alla sua morte, nel 1519, una stretta e prudente neutralità.

Nei molteplici tradimenti del marchese di Mantova, occorre indubbiamente

vedervi una parte di opportunismo ed una parte del gioco politico. Ma vi si può

intravedere una gran parte di genio politico. Francesco Gonzaga, per il suo

machiavellismo, più che per il suo genio militare (non risulta che abbia mai vinto

una vera battaglia), ha saputo mantenere l’indipendenza del suo marchesato, in

un’epoca in cui numerosi stati italiani, e fra i più grandi, crollano come castelli di

carta.

BIBLIOGRAFIA

Braglia Riccardo, I Gonzaga. Il mito, la storia, Artiglio, 2002

Cadalora Mario, Gonzaga, Modena, 1990

Castagna Mario, Stemmi e vicende di casate mantovane, Montichari, 2002.

Coniglio Giuseppe, I Gonzaga, Varese, Dall'Oglio, 1973.

Dolci Marilena, Isabella d'Este e Francesco Gonzaga. I segreti di una

coppia, 2018, Editoriale Sometti, Mantova

Malacarne Giancarlo, I Gonzaga di Mantova, una stirpe per una capitale

europea. Gonzaga Marchesi, Modena, Il Mulino, 2005.

Murgia Adelaide, I Gonzaga, Milano, Mondadori, 1972.

6

Nosari Galeazzo, Canova Franco, I Gonzaga di Mantova. Origini di una

famiglia dinastica, Reggiolo, 2019, ISBN 978-88-99339-67-8.

L’OPERA MERITORIA DI UNA DONNA : HERRADA DI HOHENBURG

Herrada di Hohenburg o di Landsberg

La badessa che completerà il restauro del convento del Monte di Santa Odile e si imporrà all’attenzione dei posteri,con la realizzazione del superbo manoscritto Hortus Deliciarum (Il Giardino delle Delizie), summa del sapere religioso della sua epoca, rappresenta una figura di spicco della letteratura e delle arti dell’Europa medievale. Il convento di Hohenburg (il cui nome significa, “borgo o fortezza in alto”), si trova sulla vetta del Monte Sant’Odile, a 760 metri di altitudine, nel massiccio boscoso dei Vosgi, ad una trentina di chilometri a sud est di Strasburgo. Posto sopra un promontorio di gres, che costituisce un notevole posto di osservazione, il suo campo di vista domina la piana dell’Alsazia e si estende fino alla Foresta Nera, dall’altro lato del fiume Reno.

La fondazione religiosa

La fondazione del convento sulla cima della montagna risale al VII secolo. Sotto il regno del re merovingio Childerico II (653-675) figlio di Clodoveo II detto il Fannullone (633-657), il duca d’Alsazia, Aldarico o Eticone (630 circa-690) costruisce all’estremità del pianoro roccioso, una residenza, facendovi innalzare una nobile dimora, probabilmente restaurando una fortezza già esistente. A sua volta discendente,senza dubbio da un castellum romano. Egli offre quindi questo possedimento a sua figlia OdileOttilia o Odilia (660-720), nata cieca e miracolosamente tornata a vedere dopo qualche anno.E’ proprio su questo posto che Odilia fonda, negli anni 680, il convento che porta il suo nome e che seguiva la regola mista dell’abate San Colombano d’Irlanda (540-615) secondo il modello del convento di San Pietro di Luxeuil (antica Luxovium nella Franca Contea), fino alla riforma generale benedettina, introdotta dopo l’814 da Benedetto d'Aniane (750-821). Odilia, diventata poi la patrona dell’Alsazia, verrà venerata molto presto e la sua tomba darà origine ad un celebre pellegrinaggio, la cui reputazione, già nel 10° secolo, si estendeva fino alla Ruhr in Germania.La donna crea, inoltre ai piedi della montagna, a Niedermunster (monastero in basso), una foresteria destinata ad accogliere i pellegrini ed i fedeli che avevano difficoltà a scalare il cammino fino ad Hohenburg e che diventerà una seconda abazia. Questi due capitoli conventuali risultano, con le abbazie di Andlau e di Santo Stefano a Strasburgo, fra le più antiche comunità religiose femminili della Bassa Alsazia (oggi Basso Reno) Dopo aver ospitato fino a 130 suore e conosciuto una grave devastazione da parte degli Ungari e quindi diversi incendi, sempre seguito da ricostruzioni, Hohenburg e Niedermunster, come anche le loro dipendenze vengono rovinate agli inizi del XII secolo dal duca svevo Federico II Staufer, detto il Guercio (1090 - 1147), padre del futuro Federico I di Hohenstaufen (1122-1190), detto Barbarossa. Sembrerebbe che il duca abbia fatto mettere a fuoco l’edificio per sloggiare i suoi nemici della famiglia degli Hihenburg e senza dubbio per distruggere quello che poteva servire da piazza forte militare peri suoi avversari. Il contesto è quello della Lotte per le Investiture (1075-1122), che oppone, a quel tempo, il Sacro Romano Impero Germanico al Papato di Roma. Con l’occasione, il duca svevo avrebbe anche messo le mani anche sui cospicui beni delle abbazie.

Sviluppo dell’Alsazia nel XII secolo

Il figlio del duca, Federico Barbarossa rivolge una attenzione particolare all’Alsazia. Egli si reca nella regione ben 13 volte, fra la sua elezione alla dignità imperiale (4 marzo 1152) ed il 1189.Il suo regno corrisponde anche ad un formidabile sviluppo demografico, economico e culturale dell’Alsazia. Esso è marcato dalla creazione di nuove città, come Colmar, Hagenau, Selestat, Wissenburg o Obernai e lo sviluppo dell’agricoltura e della viticoltura sulla piana del Reno e sui pendii dei Vosgi, la qualità delle produzioni erano rinomate in tutto l’Impero. In parallelo emerge il Minnesang (poesie liriche cantate) per mezzo di rinomati trovatori come Gotfried von Strassburg (1180-1215 circa) o Reinmar von Hagenau (morto nel 1210) e la vita intellettuale si espande nell’ambito dei monasteri, come avverrà ugualmente, nel corso del XII secolo, in una grande parte dell’occidente medievale.Federico Barbarossa da inoltre impulso alla ricostruzione di Hohenburg e di Niedermunster, piazzando il primo sotto la diretta dipendenza imperiale (mentre, di norma, i conventi si trovano sotto l’autorità del vescovo di giurisdizione) e beneficandolo di larghe donazioni. Egli visita il monte qualche mese dopo la sua elezione a imperatore, il 27 gennaio 1153, ed insedia alla sua guida, Relinda (badessa dal 1153 al 1176), una sua pupilla che proviene dal convento di Bergen, in Baviera.

Due abbadesse di rilievo

Relinda introduce nel convento di Hohenburg la regola di Sant’Agostino e consolida una maggiore disciplina di quella che esisteva in precedenza nel capitolo delle canoniche secolari: le dame pronunciano ormai i voti e devono dimorare a vita nella comunità, anche se esse dispongono ancora di libertà.Relinda fa ricostruire gli edifici incendiati, in un periodo di circa 20 anni. Su una delle tavole dell’Hortus Deliciarum figura una rappresentazione, che potrebbe essere quella del convento rinnovato Vi si distingue sula cima di una montagna e sul dietro le figure del Cristo e di Maria e di San Giovanni Battista, una vasta chiesa romanica a due navate laterali, oggi scomparse.Relinda, sicuramente proveniente dalla nobiltà, risulta una donna istruita: essa pratica la poesia latina, la musica,il disegno ed è possibile che possa essere stata all’origine dell’Hortus Deliciarum, o, come minimo, la badessa aveva certamente fatto installare uno scriptorium nel convento di Hohenburg.Herrada, per quanto la concerne, entra in convento verso il 1140. Si é a lungo pensato che la donna fosse derivata dalla nobiltà alsaziana ed, in particolare, dalla famiglia dei Landsberg (da cui il nome Herrad von Landsberg, 1125 circa-1195, che gli era stato attribuito), ma questa origine non è stata mai provata. La stessa Herrada, comunque, si presenta come “di Hohenburg”.La donna viene formata dalla badessa Relinda, che la sceglie per succederle, evento che avviene nel 1167. Herrada, diventata badessa, è per certo l’autore dell’Hortus Deliciarum (1),  essa stessa lo indica nel suo testo, pur non mancando di rendere omaggio a quella, di cui era l’erede spirituale. L’ultima miniatura del manoscritto è una firma che ricorda: “Herrada, nominata badessa del convento di Hohenburg dopo Relinda, che l’aveva formata con le sue lezioni ed i suoi esempi”.

Una attività instancabile e straripante al servizio del convento

Herrada dirige il convento per circa trenta anni. Essa continua il compito della ricostruzione iniziata da Relinda, come ampiamente dimostrato da diversi documenti. Nel 1178 la nuova badessa fa venire alcuni monaci premostratensi (2) da Etival, in Lorena, affinché si insedino presso il priorato di San Gorgone, che si trovava ai piedi del Monte di Sant’Odile, sul sentiero dei pellegrini che salivano al convento. Nel 1180, la badessa acquista la proprietà di Truttenhausen, vicina alla stessa montagna e quindi vi fonda un abbazia di canonici agostiniani provenienti da Marbach in Alta Alsazia (Alto Reno). Essa dota questi due nuovi insediamenti religiosi di terre e vigne. L’obiettivo di Herrada è quello di ristabilire un servizio religioso regolare nella sua abbazia: i Premostratensi e gli Agostiniani, ormai vicini, si impegnano a dire la messa quotidianamente ad Hohenburg, che rimane comunque un luogo di difficile accesso e che, in quanto il convento femminile, non può, per decenza, accogliere preti nella dimora.Si sa che Herrada riesce a recuperare alcuni beni accaparrati ed a far pagare affitti in ritardo o ancora che la donna acquisirà un molino ed alcune vigne nel vicino comune di Ortrott per assicurare entrate supplementari al suo convento. Tutto questo indica una personalità senza dubbio infaticabile, testarda, tenace e rigorosa, interamente dedita alla restaurazione della grandezza di Hohenburg.

Hohenburg, abbazia dell’Impero

Questa attività di fondazione e di gestione è anche la dimostrazione degli importanti poteri esercitati dalle abbadesse del XII secolo. La storica Sabina Klapp (3) sottolinea, evocando in particolare Relinda ed Herrada,: “Le badesse disponevano di competenze molto ampie, che variavano a seconda del regolamento e della dotazione del capitolo, ma riguardavano tutti i campi della vita dell’istituzione. Esse assumevano, in tale quadro la responsabilità suprema dell’economia, dei diritti signorili, dei feudi, dell’amministrazione,delle parrocchie, del capitolo e della familia del convento,come anche di tutti i dettagli della vita quotidiana. Poiché le stesse non erano sottoposte alla clausura, Esse avevano la possibilità di occuparsi degli affari delle loro rispettive comunità.Alla fine dell’abbaziato di Herrada, Hohenburg accoglie nuovamente un numero significativo di religiose: quarantasette canoniche e tredici novizie. Herrada muore nel 1195. Qualche anno più tardi, Hohenburg viene riconosciuto come abbazia dell’’Impero. Nel XIII secolo la sua badessa porta il titolo di “principessa dell’Impero”: titolo che le attribuisce il diritto, fra gli altri, di avere un posto nella Dieta Imperiale, istituzione che riuniva i diversi sovrani dell’Impero e che sovraintendeva agli affari generali dell’Impero.

Un “manuale d’insegnamento” per giovani monache

Ma il capolavoro di Herrada di Hohenburg è comunque l’Hortus Deliciarum il Giardino delle Delizie - giardino che fa riferimento al giardino dell’Eden,visto come un paradiso di conoscenze e di sapere. Questo manoscritto di 255 fogli di grande formato, completati da 69 fogli intercalati e più di 330 notevoli illustrazioni, che mettono in scena ben 9 mila personaggi, era destinato ad istruire le giovani religiose che vivevano in convento sul cammino della via cristiana.Il manoscritto è organizzato in quattro parti: la Creazione e gli avvenimenti del Vecchio Testamento, la vita di Cristo, lo sviluppo della Chiesa dagli Apostoli e le sue lotte contro l’AntiCristo, infine la fine del mondo ed il Giudizio Universale.Herrada vi ha riunito tutto il sapere religioso della sua epoca. Per questo motivo e secondo i principi del lavoro enciclopedico, la donna ha attinto al Vecchio ed al Nuovo Testamento, presso i Padri della Chiesa latina, agli autori dell’epoca carolingia o presso numerosi suoi contemporanei, come Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), il teologo Pietro o Pier Lombardo (1100-1160 circa) o Onorio di Autun o Honorius Augustodunensis (1080-1154). L’opera risulta preziosa per diverse ragioni. Se lo scopo è completamente morale o teologico, le illustrazioni riguardano numerosi soggetti e ci trasmettono scenari ed elementi della cultura profana del XII secolo: l’Hortus Deliciarum evoca le sette arti liberali, l’arte della cavalleria, mostra banchetti, i piatti ed i costumi contemporanei di Herrada, il funzionamento di un molino ad acqua, i segni dello Zodiaco, vi si ritrovano degli apporti dall’eredità classica (ad esempio negli scenari dell’architettura o nell’immagine del carro del Sole).Esso presenta ugualmente alcuni poemi e le loro notazioni musicali. Esso costituisce anche una forte sulla lingua germanica, in quanto Herrada, vi ha annotato, per far comprendere meglio, più di mille termini del vecchio tedesco rispetto al testo in latino.

Una grande figura femminile del Medioevo

Herrada si é dedicata alla realizzazione dell’Hortus Deliciarum per 16 anni, dal 1147 al 1163. Appare verosimile che la badessa abbia collaborato con altre abbazie alsaziane per lo scambio o il prestito di opere. Si sa per certo che erano forti i legami con l’abbazia di Marbach, da dove provenivano le canonici agostiniani, insediati a Truttenhausen ed il cui scriptorium era famoso e si può immaginare un intensa relazione con le abbazie come Munster o Sainte Foy, o con la biblioteca della Cattedrale di Strasburgo, che ricadevano per giurisdizione nello stesso arcivescovato.Herrada di Hohenburg rappresentativa del ruolo eminente ricoperto dalle donne ed, in particolare dalle abbadesse e dalle monache, nel Medioevo. Secondo Laurence Moulinier (4), “I monasteri appaiono come uno dei luoghi privilegiati dell’espressione di una cultura o di una scienza femminile,proprio nel mezzo della famosa ripresa sociale del XII secolo”.Lo stesso secolo ha, in effetti, fornito la badessa Eloisa (1092-1164), la cui corrispondenza con Abelardo di Bath (1080-1152) é rimasta celebre ed, in Alsazia, la canonichessa Guta, del convento di Schwartzenthann (Alto Reno),  che redigerà un manoscritto datato 1154, arricchito da miniature dal canonico Sintram di Marbach. Questo codex comprende, in particolare, un calendario con prescrizioni di salute e costituisce anche esso un tesoro del patrimonio culturale dell’Alsazia. In questo contesto non si può mancare di citare Hildegarda di Bingen (1098-1179), religiosa benedettina, medico, naturalista e visionaria, figura di spicco di questa effervescenza intellettuale.Herrada di Hohenburg fa parte di queste figure erudite: il suo Giardino delle Delizie costituisce un’opera monumentale, il primo trattato di questa importanza redatto da una donna. Per questo motivo costituisce anche una emozionante e preziosa testimonianza del suo tempo

NOTE

(1) I canonici regolari premostratensi (in latino Candidus et Canonicus Ordo Praemonstratensis) sono un ordine canonicale di diritto pontificio: i religiosi pospongono al loro nome la sigla O. Praem.; L’ordine è stato fondato da S. Norberto nel 1120: dal nome del fondatore i religiosi sono chiamati anche Norbertini, mentre il nome di premostratensi deriva dal luogo della prima fondazione che avvenne a Prémontré (Praemonstratum), presso Laon, in Francia. I premostratensi seguono la regola di S. Agostino; vestono di lana bianca. Lo scopo del loro istituto è il servizio liturgico del coro e il ministero sacerdotale tra il popolo; tengono anche collegi. Il potere massimo dell'istituto è rappresentato dal capitolo generale, il quale è presieduto dall'abbate generale; questo ha facoltà di visita canonica su ogni abbazia, ma la sua abbazia è a sua volta visitata da tre altri Abati principali. Nel periodo di massimo splendore hanno contato fino al 1300 conventi sparso per tutta l’Europa ed in Terra Santa;

(2) Il prezioso manoscritto fu conservato con cura nell'Abbazia di Hohenburg. Dopo il grande incendio del 1546, che distrusse quasi completamente l'abbazia, l'ultima badessa, Agnese di Oberkirch, lasciò la proprietà della medesima al vescovo di Strasburgo e così l'Hortus Deliciarum entrò a far parte dell'archivio diocesano a Saverne. Più tardi, il manoscritto si trovò nel convento certosino di Molsheim, dove nel XVII secolo fu realizzata una copia del testo. Durante la rivoluzione francese, il manoscritto passò alla biblioteca distrettuale di Strasburgo.

L'originale bruciò nella notte fra il 24 e il 25 agosto 1870, nel corso della guerra franco-prussiana, in un incendio divampato durante l'assedio di Strasburgo, nella Biblioteca nazionale e universitaria di Strasburgo, dove a quel tempo era conservato. Ne rimasero quindi solo delle copie, tra le quali un facsimile quasi di pari valore, opera realizzata da Christian Moritz Engelhart, nel 1818, che attrasse persino l'attenzione dello scrittore tedesco Goethe. Attraverso un instancabile impegno erudito, grazie alla disponibilità di copie e riproduzioni di gran parte delle miniature e dei testi in latino che le accompagnavano, si è riusciti a ricostruire una stampa di questa testimonianza unica della storia culturale e religiosa medievale dell'Alsazia, ancora oggi disponibile;

(3Klapp SabineLe abbadesse dei capitoli di canonichesse d’Alsazia dal XV al XVI secolo, in Rivista d’Alsazia, n. 136, 2010;

(4Moulinier LaurenceEleonora e le donne erudite del XII secolo, in un fascicolo fuori serie di Arts, recherches et creations, dedicato ad Eleonora d’Aquitania del 2004.

BIBLIOGRAFIA

Cristen Auguste e Gies CharlesHortus Deliciarum, reconstruction du manuscript du XII siècle de Herrade de Landsberg, Coprur, 1990;

Fischer Marie ThereseTreize siècle d’histoire au mont Sainte Odile, Editions du Signe, 2006;

Sito ufficiale del Santuariowww.mont-sainte-odile.com; e www.auour-du-mont-sainte-odile.fr.

FOSSATI e FORTIFICAZIONI

FOSSATI e FORTIFICAZIONI

Pubblicato sulla Rivista Militare di Cavalleria n. 4/2020 del mese di agosto

2020

Fossati riempiti d’acqua ai piedi di imponenti muraglie costituiscono una

dell’immagini tradizionali e largamente diffuse del castello medievale. Un

esame più attento dei dati disponibili porta a rivedere questa consolidata

opinione.

Dai tempi più antichi, l’esigenza di proteggersi da minacce esterne ha portato

alla utilizzazione del fossato e di un passaggio obbligato mobile per

attraversarlo, il ponte levatoio. Queste sono due parti di un solo insieme, in

quanto lo scavo del primo condiziona la posizione dell’altro. Per gli stessi eserciti

in movimento, obbligati ad organizzare degli accampamenti sommari, scavare il

suolo e recuperare la terra, per organizzare delle difese elementari intorno al

campo, equivaleva a realizzare un fossato di protezione.

Allorché in un luogo si verificava la necessità di una presenza permanente di una

guarnigione, sia per motivi logistici o per ragioni di controllo del territorio, il sito

veniva normalmente fortificato in pietra, attraverso un sistema difensivo nel

quale muro e fossato risultano ancora degli elementi inseparabili.

Indubbiamente la profondità del fossato contribuiva ad esaltare la potenza del

muro di difesa, ma era comunque un fatto evidente, acquisito ed accettato da

tutti, che la moltiplicazione degli ostacoli cosiddetti “naturali” risultavano utili

per rinforzare la sicurezza complessiva dell’opera.

Il 10° e l’11° secolo aggiungono al sistema difensivo un ostacolo supplementare:

l’altezza o meglio la quota, ovvero il dominio geografico del luogo ai fini della

sicurezza e per un preallarme della difesa. In un periodo storico caratterizzato

dalla frammentazione del potere, la minaccia o il pericolo poteva manifestarsi già

dalla linea dell’orizzonte e tutto quello che non era controllato dall’occhio umano

o dominato dalla vista, poteva apparire comunque sospetto. Per questo motivo la

dimora del signore viene, di norma, edificata su un rilievo naturale o artificiale

(vedasi le “motte”1 ed i dongioni normanni), un luogo dominante del territorio, la

cui posizione protegge e rassicura allo stesso tempo.

Per molto tempo si è voluto vedere nel simbolismo del castello medioevale,

arroccato in alto a dominio del territorio circostante, come il senso del dominio

di un potere su una società gerarchizzata ed asservita, ma in realtà si è spesso

omesso di ricordare l’importanza e l’apporto di tale struttura alla difesa

collettiva delle popolazioni rurali, all’interno del quale le stesse potevano

rifugiarsi all’emergenza.

La motta normanna, spesso sprovvista di fossato, era in effetti circondata da un

pendio scoperto ed esposto al tiro dei difensori, a sua volta delimitato da forti

palizzate di legno dietro le quali, in caso di pericolo, veniva a ripararsi la gente

dei dintorni. Il fossato scavato, tipico delle epoche precedenti, generalmente

scompare, perché i mezzi dell’epoca non permettono impegnativi lavori di

predisposizione del terreno ed i tecnici del periodo cercano piuttosto di

sfruttare i vantaggi derivanti dalla morfologia del terreno, come ad esempio, un

rilievo dominante o le scarpate. Questa concezione durerà fino al 15° secolo, sia

attraverso l’uso del dongione su un terreno sopraelevato, sia attraverso quella

possente dimora fortificata che è il castello. In questi casi, i fossati che si

possono osservare accoppiati, a volte, a queste strutture, derivano

frequentemente, più da uno sfruttamento intelligente del terreno, che da una

deliberata tecnica costruttiva.

Occorrerà attendere la nascita della borghesia urbana e delle autonomie

comunali nel 1200 per ritrovare, nel caso della difesa delle città, una funzione

essenziale attribuita al fossato. La localizzazione delle nuove città, di norma

poste nei pressi di crocevia di comunicazione e quindi in piano, porta

necessariamente a ripensare tutto il sistema difensivo e tale contesto conduce

sistematicamente al reimpiego di tutti quegli ostacoli, “naturali e passivi”, che

possono contribuire in qualche modo al rallentamento della progressione del

1 Piattaforma artificiale in terra, rialzata e difesa, sulla quale venivano costruite fortificazioni o dei dongioni, torri

circolari o quadrate, fortemente sviluppate in altezza, per il controllo del territorio e ultimo baluardo della difesa.

nemico. In tale contesto, le difese delle città evidenziano sempre più spesso

cinte fortificate circondate da fossati, di ampiezza crescente ed i cui fianchi

scoscesi sono normalmente rinforzati da terra o da muretti in pietra. Laddove

risulta possibile vengono sfruttati al meglio gli elementi offerti del terreno,

utilizzando punti forti o, se del caso, deviando i corsi d’acqua viciniori. Ecco

dunque che, a partire dalla Guerra dei Cent’anni ed anche oltre, una serie

innumerevole di fossati, dalla tipologia più svariata, con acqua o senza ed

associati ad opere militari innovative (vedi il barbacane2 o il bastione3), vengono a

modellare il paesaggio di una Europa, che si protegge, si fortifica e si cinge di

bastioni e di torri di difesa.

In tale quadro, l’importanza ed il ruolo del fossato come elemento costitutivo

della fortificazione meriterebbe più di una considerazione, non priva di una sua

caratteristica specifica, specie per quanto riguarda la sua combinazione con

l’acqua.

Questa combinazione, così spesso conclamata ed universalmente entrata

nell’immaginario collettivo delle masse, non consegue peraltro, né dall’esame

storico, né da una stretta logica architettonica. Di fatto nelle difese medievali

l’associazione, in maniera assoluta, dell’acqua al fossato ed al muro, costituisce

una affermazione non sempre vera ed una convinzione che l’evidenza dei fatti si

incarica spesso di smentire.

Acqua e fossato, un matrimonio di convenienza

La funzione complementare del fossato

Esiste infatti un sensibile scostamento fra l’immaginario collettivo popolare, che

associa sempre un castello al fossato e la realtà che decorre dall’osservazione

del patrimonio castrale. I fossati, concepiti ed organizzati come tali, lo saranno

sistematicamente solamente a partire dal 12° secolo nell’ambito dell’architettura

medievale. Quando essi esistono, raramente circondano completamente l’opera,

2 Opera avanzata ed isolata disposta in genere davanti ad una porta principale, al di là del fossato, al fine di

proteggerne l’accesso..

3 opera poligonale che crea un saliente in una cinta fortificata.

ma piuttosto vengono utilizzati per rinforzare la parte più esposta, quella

evidentemente del fronte di un possibile attacco. D’altronde, l’incremento

difensivo che si poteva conseguire con un fossato, poteva essere ugualmente

ottenuto con una cosiddetta “camicia protettiva”4, oppure con una spessa

muraglia o ancora, come in certi castelli abbarbicati su un’altura, con dei muri di

protezione a quote più basse.

Prima di essere semplicemente un complemento di un bastione, il fossato si

presenta soprattutto come una vera e propria organizzazione e sistemazione del

terreno, destinato a complicare l’azione degli assalitori.

Questo è il caso di numerosi castelli che, localizzati su degli speroni rocciosi o su

dei promontori, realizzano dei fossati trasversali, scavati nella roccia, per

sbarrare il loro accesso, il più delle volte davanti alla porta principale e/o fra la

parte bassa e la parte alta della stessa fortificazione. Per questo motivo e per

sfruttare meglio le possibilità offerte dal terreno, il castello viene posizionato di

preferenza in prossimità di depressioni o fossati naturali. In questo caso, il

fossato è l’elemento primordiale della fortezza, in quanto condiziona l’ubicazione

della costruzione. D’altronde, in ogni tempo lo scopo dell’arte militare è stato

quello di utilizzare al meglio le possibilità offerte dal terreno, specie quando il

tempo a disposizione è ridotto e, soprattutto, quando le risorse di manodopera

sono scarse o troppo care.

Nel Medioevo e fino a quando il progresso delle artiglierie non impone nuovi

canoni architettonici, la costruzione di un’opera militare si incentra

essenzialmente intorno al principio del comando o del dominio dello spazio

circostante, ovvero sulla sua capacità di controllare la verticalità dello spazio.

Conquistare una fortificazione significa, per l’attaccante, penetrare al suo

interno e ridurre, attraverso combattimenti parziali e localizzati, la resistenza

collettiva dei difensori. Si può arrivare a tale scopo, operando una breccia nella

muraglia con delle armi di sfondamento o da getto (mangani, arieti, catapulte,

4 Cinta bassa in muratura, che circonda una torre o un dongione per rinforzare la sua protezione: Aveva la stessa

funzione della vecchia palizzata.

ecc.), dagli effetti aleatori o attraverso opere di galleria5, la cui efficacia,

peraltro, poteva risultare non sempre garantita.

Il mezzo d’assalto più rapido, come il più efficace, rimaneva, pertanto, il

superamento di questi ostacoli per mezzo di scale o macchine d’assedio

specifiche, che permettevano di addossarsi alla muraglia, portando gli assalitori

alla stessa altezza dei difensori, una volta evidentemente riempito il fossato nel

punto scelto per l’attacco.

Più che per il difensore, per l’attaccante, di norma numericamente superiore, la

chiave di volta del combattimento rimaneva ,quindi, lo scontro corpo a corpo, reso

possibile una volta conseguito il superamento dell’ostacolo.

In tale contesto, la dissuasione del difensore, a quest’epoca, si basa soprattutto

sull’altezza della cortina muraria e l’aggiunta di fossati al piede delle mura non fa

altro che rinforzare l’impressione generale di altezza (e di invalicabilità) e della

potenza delle fortificazioni.

Ecco perché, in questo caso, è più importante la profondità che la larghezza del

fossato e se una regola esiste nella sua realizzazione questa risponde di norma

alla massima che la sua profondità deve essere “ben maggiore di un uomo in piedi

con le braccia alzate”, in modo che, dal fondo, non possa aggrapparsi al bordo con

le mani6.

In ultima analisi si deve realizzare un fossato che impressioni e ponga in forte

soggezione l’attaccante e che lo immobilizzi sul fondo, esposto al tiro incrociato

degli arcieri e dei balestrieri della difesa. Impressione, peraltro, che la sagoma e

la massa compatta e slanciata dei castelli già, da lontano, suggeriscono

all’osservatore, a prescindere dall’esistenza o meno di fossati.

Il ruolo ambiguo dei fossati riempiti d’acqua

La presenza di acqua nei fossati, in realtà, poteva nuocere, rompendo la

verticalità delle forme, e l’effetto psicologico ricercato dai costruttori, cioè la

5 scavate sotto le fondamenta per far crollare la cortina sovrastante.

6 Da una lettera indirizzata dal Re Luigi11° nel 1479 ai borghesi di Reims leggiamo: che il fossato a “pié droit …

au moins plus haut qu’ung homme ne peult atteindre de la main” ( parete verticale … abbastanza alta che un

uomo non possa aggrapparvisi con la mano)

dissuasione ed in tale contesto non deve essere sottovalutato il sentimento che

tali costruzioni provocavano sulle popolazioni di quel tempo. Mentre nelle epoche

successive, con l’avvento dell’artiglieria, l’impatto psicologico delle costruzioni

militari si baserà maggiormente sulla dissimulazione (vedi sistemi bastionati) o

sull’interramento delle opere (20° secolo) e quindi sull’effetto sorpresa. Nel

Medioevo, la paura o il fantasma della stessa si fondava sulla presenza massiccia,

visibile ed imponente, dell’opera fortificata. In tale quadro, la presenza di acqua

nel fossato contribuendo a diminuire proprio l’altezza globale della costruzione,

diminuiva fortemente l’imponenza della fortificazione. E’ pur vero che

l’utilizzazione dell’acqua nel fossato presuppone una situazione difensiva

completamente diversa da quelle canoniche e tradizionali dell’epoca e che l’uso

della stessa veniva ricercata per attribuire un valore difensivo aggiunto ad una

opera generalmente posta in terreni morfologicamente meno forti. In questo

caso, il fossato è obbligato ad una diversa fisionomia, dove, oltre ad essere

profondo per le ragioni anzidette, deve presentare una sua ampiezza tale da

risultare di non agevole superamento. In questi casi, l’acqua, accoppiata al

fossato, ha appunto la funzione, non irrilevante, di compensare la mancanza di un

terreno dominante.

Ma per tornare al Medioevo, oltre alle logiche suddette che sconsigliavano l’uso

dell’acqua nei fossati, c’erano alla base anche fattori di ordine psicologico. Molti

consideravano che circondare un’opera fortificata di acqua significava anche

indebolirla in quanto l’elemento liquido, simbolo della fragilità e dell’abbandono,

era per certi aspetti antinomico all’elemento minerale, la pietra simbolo della

forza e della virilità.

Ma altre considerazioni di ordine tecnico propendevano per tale attitudine.

Prima di tutto, la diffidenza profonda delle popolazioni medievali per l’acqua

stagnante, percepita come vettore patogeno, sorgente di miasmi e di malattie

putride.

7 Comunque se i fossati con acqua potevano difensivamente essere

giustificati, questi dovevano essere attraversati da acque vive e correnti, unico

modo, d’altronde, per evitare anche il processo di interramento. Questo è il caso 

Peraltro non mancano esempi di castelli eretti all’interno di paludi in Guascogna e nelle Fiandre.

di fortezze nei pressi della costa o con corsi d’acqua in prossimità (vedasi Torre

Astura, S. Severa, ecc.). Certamente, circondare il castello d’acqua corrente

significa, per certi aspetti, isolarlo dal resto del territorio e consolidare la sua

difesa, ma anche questa scelta nasconde alla lunga un prezzo da pagare, tanto

che a volte il rimedio può risultare peggiore del male stesso.

Questo aspetto introduce, infatti, un altro inconveniente tecnico.

Il flusso incessante dell’acqua, come le stesse variazioni di livello finiscono, col

tempo, per intaccare le fondazioni delle mura che insistono sul fossato. L’acqua,

attaccando la pietra, rendendo più fragili le fondamenta, viene a minacciare la

stabilità di una costruzione sulla quale interagiscono delle forze statiche

rilevanti. In realtà, all’epoca esistevano già mezzi per rimediare a tali

inconvenienti: come, ad esempio, l’ancoraggio del terreno per mezzo di pali di

legno conficcati nel suolo o altri metodi abbastanza efficaci (ricoprire di fascine

o rami le pareti del fossato per impedire l’asportazione di terreno). Ma la

maggiore difficoltà risiedeva primariamente nel reperimento delle risorse

finanziarie per la condotta dei lavori, la cui utilità difensiva era, in fin dei conti,

marginale.

Neanche l’altra ipotesi, che prevedeva l’allontanamento del fossato dalle mura

non costituiva una soluzione soddisfacente, perché offriva all’attaccante spazio

libero per la sua manovra.

In realtà la sola acqua che risulta favorevole alla difesa è quella che non si vede,

quella che non invade il sito, quella che impregna il terreno circostante in maniera

insidiosa, infangando ed immobilizzando i fanti e le cavalcature che vi si

avventurano. Ad esempio l’acqua di un ruscello che, approfittando di un leggero

declivio, si sparge ed imbibisce il terreno circostante la fortificazione. Possiamo

peraltro dire che il vantaggio di tale situazione presenta comunque un rovescio

negativo per lo stesso difensore. Di fatto se in tale contesto l’acqua è in

condizione di immobilizzare significativamente l’attaccante ai piedi della

muraglia, allo stesso modo è in condizioni di negare al difensore, in caso di esito

favorevole dello scontro, la possibilità di inseguire l’assediante. E’ anche pur vero

in linea di massima e questo è anche un ulteriore sintomo della mentalità

medievale e delle prevalenti logiche di difesa del tempo, che l’inseguimento del

nemico non era certamente una preoccupazione ed un aspetto rilevante nei

combattimenti dell’epoca, tanto più che la presenza del solo fossato, ostacolo a

qualsiasi movimento, rappresentava anche una forte limitazione per l’azione di

eventuali sortite da parte degli assediati.

L’acqua ed il fossato, un ineluttabile divorzio

A partire dall’inizio della Guerra dei Cent’anni e fino alla fine del Medioevo,

l’obbiettivo dei conflitti si disloca. Il potere da sottomettere o da attaccare non

si trova più necessariamente in un castello feudale, a sua volta infeudato al

potere reale, ma piuttosto nelle città, sorgenti di ricchezze e di influenze

politiche. Queste ultime e le loro ricchezze, fortemente concupite dai detentori

della forza e del potere, non disponendo di una vera struttura difensiva, sono

rapidamente costrette ad organizzare la loro difesa, nel quadro della loro

situazione morfologica e topografica. Se il borgo si era stabilito su un rilievo, la

cinta muraria di difesa doveva, ovviamente, cercare di sfruttare tutti gli ostacoli

naturali esistenti, quali ravine o corsi d’acqua, impegnandosi, all’occorrenza ed ove

necessario, in una vera “corsa” verso le rive di un fiume.

Ecco dunque che in molte città medievali si vede la cinta muraria allungarsi,

scendere dalle alture nei sobborghi bassi della città, per appoggiarsi al corso

d’acqua ed approfittare, così, dell’ostacolo che quest’ultimo pone al movimento.

Altrove, dove le città si sono già sviluppate ai bordi di un corso d’acqua ed

all’intersezione di una importante via di comunicazione, si cerca in ogni modo di

trarre il miglior profitto dalla situazione: il fiume viene regolato con opere

idrauliche, si creano canali di derivazione verso macchine idrauliche (molini ecc.),

vengono deviati dei bracci del fiume, installandovi delle chiuse e delle barriere

per regolarne il flusso.

Uno degli esempi più significativi in Europa è rappresentato dalla città di

Strasburgo, dove l’acqua, abbondante e con una discreta corrente, diviene un

elemento essenziale ed intimamente connesso con le opere di difesa.

In altre località tuttavia dove le risorse di acqua sono meno facili da controllare

o persino da trovare, la messa in opera di fossati “umidi” rappresenta un vero

problema. Il flusso insufficiente del fiume che li alimenta costringe la

popolazione a dei lavori di manutenzione faticosi e continui che solo l’imminenza

di un possibile assedio può rendere giustificati. I fossati “umidi”, per essere

efficaci, devono in effetti trovarsi liberi da qualsiasi vegetazione, presentare un

fondo piatto e possibilmente melmoso. La profondità, rispetto alla ampiezza, non

è più un elemento fondamentale, anche perché delle profondità accentuate

potrebbero occultare il suo attraversamento da parte di abili nuotatori. Per

contro un profondità di 50 – 60 cm. viene giudicata idonea per immobilizzare i

fanti attaccanti, esponendoli alle azioni della difesa. L’allargamento della

larghezza dei fossati sarà anche uno degli effetti della comparsa dell’artiglieria

e l’aumento di tale dimensione, incrementato da pendii scoperti, risulta, a volte,

sufficiente a mantenere le nuove armi fuori dalla portata utile del loro tiro.

Scoperto il principio rimaneva agli ingegneri delle fortificazioni di portare alle

estreme conseguenze le logiche suddette, specialmente a quelli italiani che, per

effetto della precoce urbanizzazione in Italia, saranno i capiscuola nel settore in

Europa. Ma queste logiche portano ben al di là del Medioevo, perché il principio di

liberare l’acqua, di farla uscire dai fossati, di inondare le praterie circostanti la

piazza fortificata è stato applicato per la prima volta a La Rochelle, in occasione

dei lavori di fortificazione intrapresi fra l’assedio del 1572 e quello del 1628 e

diventerà un fattore di applicazione sistematica nel 17° secolo. In questo modo

l’acqua, separata definitivamente dal fossato, viene a giocare un ruolo autonomo

ed a contribuire alla difesa in un modo nuovo, più complesso ma certamente più

efficace.

Il fossato “secco”, strumento di difesa della piazzaforte

Nelle piazzeforti militari, punti d’appoggio per operazioni militari ed allo stesso

tempo elementi di affermazione del potere centrale reale, il fossato – “secco” -

gioca un ruolo di rilievo, tanto da poter affermare che, nel corso del 1500, la

presenza d’acqua intorno a delle muraglie può costituire, già di per sé stessa, la

prova della sua demilitarizzazione.

Sono numerosi d’altronde fra la fine del 15° e l’inizio del 16° secolo queste

costruzioni che si danno una sembianza guerriera, circondandosi di fossati, ma

dove in fin dei conti si percepisce chiaramente che l’elemento liquido vi sussiste

esclusivamente per aggiungere al tutto un tocco di eleganza e di raffinatezza.

Sul piano militare diverse ragioni, fra queste alcune legate direttamente all’arte

della guerra, spingono per l’eliminazione dell’acqua dai fossati. In queste fortezze

fa la comparsa, in particolare, una prefigurazione del sistema poligonale, che

consiste ad introdurre, nel fuoco disponibile e nella organizzazione delle

infrastrutture, una netta distinzione fra i tiri diretti o d’interdizione ed i tiri di

fiancheggiamento.

Il fossato viene organizzato con opere destinate a fiancheggiare l’azione degli

attaccanti, diviene un “pozzo” di fuoco, uno sbarramento, dove si incrociano i tiri

ravvicinati, letali e dissuasivi, delle armi della difesa. Il successo di un’opera di

galleria ed il crollo di una parte della cortina difensiva non significa

necessariamente la fine del combattimento. Ogni torre, ogni bastione concepito e

realizzato per funzionare in maniera autonoma, può e deve continuare i suoi tiri

di fiancheggiamento, specie dal fondo del fossato. La concentrazione dei fuochi

non si sarebbe potuta realizzare se i fossati fossero rimasti pieni di acqua. Il

fossato deve imperativamente rimanere asciutto e per tale esigenza viene

persino realizzata, al centro, una cunetta che ha lo scopo primario di drenarne le

acque piovane. Inoltre, a maggior ragione, la presenza di acqua avrebbe potuto

contribuire ad attutire l’acustica e ad occultare le azioni di mina, impedendo nel

contempo le azioni di contro mina, che in quest’epoca divengono normali.

In tal modo dall’inizio del 16° secolo, in un’epoca dove le mentalità risentono

ancora di influenze del medioevo, si assiste ad una netta dissociazione fra l’acqua

ed il fossato e questa tendenza verrà a rafforzarsi nel periodo successivo.

Sebbene dal 12° al 15° secolo i due elementi non avessero fatto sempre una

buona cooperazione, essi erano risultati tuttavia associati alla difesa di un

castello o di una piazza. Una volta concepito e realizzato un fossato, la sua

inondazione con acqua poteva essere considerata come un ulteriore incremento

per l’efficacia della difesa. I due sistemi avevano lo stesso scopo e, nel migliore

dei casi, si completavano a vicenda. Successivamente, i due elementi seguiranno

dei percorsi diversi e divergenti. Entrambi continueranno a difendere l’esterno

della piazzaforte, ma essi lo faranno con modalità differenti senza una mutua

cooperazione ed in un modo più adatto alla loro natura.

Dell’acqua verrà utilizzata la sua capacità di espandersi, il suo flusso

imprevedibile ed incontrollabile per tenere a distanza l’attaccante, assumendo

una dimensione decisamente più ampia nel campo di battaglia fino al livello

strategico. Il fossato da parte sua, con la sua collocazione, il suo profilo ed il suo

tracciato favorisce la concentrazione e l’efficacia del fuoco. Il suo ruolo militare

si riduce tuttavia alla sola difesa ravvicinata e quindi alla fase finale della

battaglia. Il fossato, lasciato il connubio con l’elemento liquido ritorna col tempo

ad essere, così come nel passato, una componente, non essenziale e tutto

sommato modesta, dell’architettura militare.

Conclusione

In sostanza, l’evoluzione della fortificazione, nel corso del Medioevo fino alla

comparsa delle armi da fuoco ed oltre, evidenzia, da una iniziale collocazione in

posizione inaccessibile e sopraelevata, con strutture decisamente massicce,

compatte e sviluppate in altezza, un progressivo abbassamento ed allargamento

della struttura, per rispondere adeguatamente alla comparsa nel campo di

battaglia della potenza di fuoco dell’artiglieria. Lo spessore delle mura,

inizialmente contenuto, viene progressivamente, con il contemporaneo ridursi

dell’altezza, ad espandersi ed accoppiarsi con terrapieni e riporti di terreno, con

la principale funzione di attutire i colpi diretti e rendere meno fragile la rigidità

strutturale della costruzione di pietra. Di pari passo, anche il fossato, elemento

connesso con le fortificazioni, subisce una sua specifica evoluzione; inizialmente,

ostacolo scavato e realizzato nella parte più importante per la difesa, diviene, col

passare del tempo, un elemento inseparabile delle cinte murarie delle città,

accoppiato o meno con l’elemento liquido. La forma del fossato, inizialmente

profonda e relativamente stretta, diviene, con l’inserimento dell’acqua, meno

profonda e più ampia e nel corso del 15° secolo con la comparsa dell’artiglieria, si

libera dell’elemento liquido ed incrementa la sua ampiezza per divenire luogo

privilegiato del combattimento ravvicinato, dove si realizza allo stesso tempo

l’incrocio dei fuochi ed il fiancheggiamento dell’attaccante.

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