facebook
^Torna sù

  • 1 www.iacopi.org
    IACOPI o JACOPI: una serie di antiche famiglie originarie della TOSCANA
  • 2 Iacopi - Jacopi
    Un cognome molto raro con (alle spalle) una storia importante !
  • 3 RICERCHE E STUDI
    Alla ricerca delle origini e della storia degli IACOPI. Sito interamente creato grazie alla ricerca e agli studi.
  • 4 AIUTI GRADITI
    Essendo ricerche storiche molto complesse è possibile vi sia qualche errore. Nel caso riscontriate delle imprecisioni vi prego di comunicarlo a maxtrimurti@gmail.com
  • 5 Benvenuto
    Buona navigazione.

IACOPI DISCENDENZE E STORIA

Una vita di ricerche per conoscere chi sono.

  

STRADIVARI DRAGONETTI-MILANOLLO, un violino incantato

STRADIVARI DRAGONETTI-MILANOLLO, un violino incantato

Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" (www.graffiti-online.com

), del mese di dicembre 2019 con il titolo: “FABBRICATO DAL LIUTAIO PER

ANTONOMASIA IL “DRAGONETTI-MILANOLLO”)

http://www.graffiti-on-line.com/home/opera.asp?srvCodiceOpera=1916

 

Il mitico liutaio di Cremona ha fabbricato più di un migliaio di magnifici

strumenti. Fra essi, il celebre Dragonetti-Milanollo, suonato, fra i tanti

virtuosi, da Paganini e Menuhin; un violino più che perfetto, frutto dei

segreti che hanno creato le leggenda di Stradivari.

irca 12 anni fa veniva pubblicata un’opera monografica, dedicata al violino

Dragonetti-Milanollo, uno dei tesori usciti dalla fabbrica di Stradivari e

per tale occasione il violinista Corey Cerocsek, proprietario dello

strumento a quell’epoca, si produsse per il pubblico in una dimostrazione pubblica

delle qualità sonore del violino, suonando la Primavera di Beethoven.

Un padrino di nome Johan Sebastian Bach

Il Milanollo viene creato nel 1728 nella città lombarda di Cremona (che insieme a

Brescia è una delle capitali del violino) nella profumata bottega del grande liutaio

Antonio Stradivari (1644-1737, all’epoca ottantaquattrenne. Il suo nome deriva

dal compositore Domenico Dragonetti (1763-1846) e da Teresa Milanollo (1827-

1904), un virtuosa dello strumento. che più tardi doveva suonarlo. Il vecchio

Antonio Stradivari aveva scelto, per confezionare il suo capolavoro, le migliori

essenze di conifera; egli le ha segate, assemblate e verniciate con la massima

precisione. Il prodotto di questi gesti, egli lo battezza “Tramonto del sole”, non

certo come riferimento al declino della sua vita, ma soprattutto a causa del

C

colore di fuoco dello strumento. Alla fine dell’opera, egli ha incollato sulla tavola

di fondo, visibile attraverso la feritoia destra della cassa armonica, l’etichetta

con sopra la formula magica: “Antonius Stradivarius fecit Cremonae”. A questo

punto il violino è pronto per raggiungere il suo prestigioso committente, il

principe Leopoldo di Anhalt-Köthen (1694-1728), il cui maestro di cappella

porta il nome, certamente mitico, Johann Sebastian Bach (1685-1750). Ed è

proprio nelle mani del musicista, chiamato appositamente dal principe per testare

il suo acquisto, che il “Tramonto del sole” farà sentire le sue prime note,

attraverso suoni sublimi.

A Köthen, residenza dei principi d’Anhalt, il violino passa all’occasione dalle mani

di Bach a quelle di Antonio Vivaldi (1678-1741), che lo indirizza verso un più

illustre destino. Certamente esso rimarrà relegato per qualche tempo, subito

dopo il decesso del principe nei granai del castello, tuttavia il suo successore,

avendo avuto l’idea di regalarlo al re di Francia, il violino viene così a ritrovarsi a

Versailles, presso Luigi 14° (1638-1715), che lo fa utilizzare in occasione di

grandi feste e di piccole cene private.

Jean Diwo (1914-2011), nel suo romanzo. “Io, Milanollo, figlio di Stradivari”,

affida lo strumento al più grande violinista della corte di Francia, Jean Marie

Leclair (1697-1764), assassinato in casa con diversi colpi di coltello ed il cui

corpo è stato ritrovato il mattino del 23 ottobre 1764. In verità, lo stradivari

che sarebbe appartenuto a Leclair risaliva al 1721 e si chiamava “Il Nero” e non

esiste alcuna traccia dal momento della sua improvvisa scomparsa nel 1728.

Quello che è certo è che sotto il regno seguente, il “Tramonto del sole” viene

affidato ad un altro virtuoso Giovanni Battista Viotti (1755-1824), molto

apprezzato dalla regina Maria Antonietta d’Asburgo Lorena (1755-1793); E’

proprio il Viotti, che durante la Rivoluzione, lo porterà in Inghilterra, prima di

cederlo per difficoltà economiche al compositore Domenico Dragonetti (1763-

1846). Quest’ultimo, sebbene violoncellista, aveva passione del collezionista e

raccoglieva anche violini; egli riuscirà a mettere insieme una notevole collezione

di strumenti, che presterà a diversi interpreti – fra questi il celebre Nicolò

Paganini (1782-1840), il “violinista del diavolo”. Paganini tira fuori dal nostro

stradivari trilli, pizzicati, staccati che stordiscono, conferendo allo strumento

una rinfrescata di prestigio ed un pizzico di leggenda.

Nel corso degli anni 1830, ciascuno vorrebbe scoprire il mistero di Stradivari,

che ha fatto di ogni violino uscito dal laboratorio di Cremona uno strumento non

come gli altri … . Le gente si interessa specialmente alla provenienza del legno:

Bernard Demoncourt o Denoncourt precisa: l’epicea utilizzata per la tavola del

violino ha origine dalla Val di Fiemme, in Italia e l’acero del fondo dello strumento

anche lui viene dal centro dell’Europa.

Quanto al taglio degli alberi, esso veniva effettuato con la luna nera nel mese di

gennaio, nel momento in cui tutta la linfa scende nelle radici, fornendo in tal

modo un materiale molto leggero. Il legno era in seguito trattato e tagliato a

mano e veniva messo a seccare per 5 anni (almeno), affinché evapori tutta l’acqua

e che si ossidi la resina. Una tecnica complessa, insufficiente, tuttavia, a

spiegare la singolarità degli strumenti. Alla morte del Dragonetti, nel 1846, lo

strumento passa nelle mani di una giovane virtuosa, molto bella e brillante,

Teresa Milanollo (1827-1904), la cui sorella minore Maria (1832-1848), sua

inseparabile compagna sulla scena, suona da parte sua il vecchio violino di Teresa,

“l’Hembert”, un altro stradivari del 1703 …

Il conclusivo giudizio sui suoni armonici di Berlioz

Per sfortuna, la giovane sorella muore non molto tempo dopo, ancora molto

giovane. “Parlatemi di un essere attraente ed una ammirevole virtuosa di 16 anni,

che aveva fatto il giro d’Europa, dato più di cinquecento concerti, guadagnato più

di un milione, rivalizzato con tutti i talenti maschili dell’epoca” - scrisse allora il

compositore Hector Berlioz (1803-1869) - capace di giocare con il tranchant dei

suoni armonici, come Ernst, senza ferire persona; d gemere sulla quarta corda,

sempre come Ernst, quando nella sua elegia, egli dà l’addio ad un pubblico di cui è

diventato l’idolo; di possedere l’espressione profonda e contenuta di Alard; di

essere dotata del meccanismo irreprensibile e del belo stile dei vecchi tempi e di

Beriot ! Parlatemi di tutto questo per dare ora concerti a Parigi ! La signorina

Milanollo ne ha appena fatto l’esperienza.”

Teresa non penserà più di servirsi di un altro strumento che non sia il “Tramonto

del sole” del 1728; fra le sue mani lo stradivari diventerà il Milanollo. Tuttavia, la

grande interprete, nel 1857, sceglierà di rinunciare alla musica per sposare un

diplomato del Politecnico, il capitano di artiglieria Teodoro Parmentier (l’aiutante

di campo del generale, maresciallo di Francia, Adolphe Niel (1802-1869)…). Per

circa mezzo secolo, fino alla morte di Teresa nel 1904 il nostro violino uscirà

poco dalla sua custodia fino anche non sarà venduto all’asta, diverse volte e

viaggiando molto dall’Italia fino in India. Lo strumento verrà suonato da grandi

violinisti, come Yehudi Menuhin (1916-1999) e Pierre Amoyal (nato nel 1949) ed

alla fine sarà acquistato dal grande solista Chistian Ferras (1933-1982). Jean

Diwo nel suo racconto scrive: “Nessuno, né Paganini né Viotti, erano riusciti a

creare un suono così caldo e così vellutato. Esso si intensificava con un vibrato al

limite della resistenza muscolare ed otteneva miracoli di potenza che, tuttavia,

lasciavano trasparire e intravvedere un specie di fragilità”.

Il maestro Ferras, diventato, purtroppo, alcolizzato, dopo un ultimo brillante

concerto dato nel 1982, finisce per cadere dalla finestra del 10° piano della sua

casa parigina … A questo punto il Dragonetti-Milanollo, nuovamente orfano, passa

nelle mani di un collezionista veneziano che ossessionato, a torto, che lo

stradivari possa essere attaccato dai vermi, lo farà esaminare invano dai più

grandi liutai, prima di scambiarlo con un collezionista cardiochirurgo svizzero

Pascal Nicod. Quest’ultimo, entusiasmato dall’ispirazione di un giovane interprete

Corey Cerocsek glielo consegna nel corso del 2004. “Mi è apparso evidente, come

alche alla mia famiglia, che lo strumento meritasse il talento di un tale artista. Io

non avevo mai immaginato di separarmi da questo violino simbolo, ma non ho

comunque esitato a prestarglielo”.

Fra quale altre mani passerà il violino di color rosso nel prossimi decenni e nei

secoli a venire ? Certamente è difficile dirlo, ma una cosa è quasi certa: i grandi

stradivari attirano verso di loro, ad ogni generazione, i migliori interpreti. Anche

il Dragonetti-Milanollo non ha finito di incantare quelli che ascolteranno

risuonare le proprie corde. “Ma i violini - dice ancora Jean Diwo - subiscono

anch’essi l’oltraggio degli anni e come gli umani si esauriscono, si indeboliscono

invecchiando ?” E’ una cosa difficile a dirsi, ma a ben vedere dall’interesse

crescente, che ancora si orienta sul “Dragonetti-Milanollo” e su tutti i violini

stradivari, si sarebbe tentati di rispondere negativamente.

IL DENARO NON HA ODORE (PECUNIA NON OLET)

IL DENARO NON HA ODORE (PECUNIA NON OLET)

Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" (www.graffitionline.com),

del mese di novembre 2020, con il titolo “PECUNIA NON OLET”

http://www.graffiti-on-line.com/home/opera.asp?srvCodiceOpera=1954

 

Per rimettere in sesto le disastrate finanze dello stato, l’imperatore romano

fa uso di un’immaginazione senza limiti, introducendo delle imposte la cui

fonte risulta, perlomeno … insolita.

Vespasiano si esprime in questi termini per giustificare la nuova imposta

che ha appena introdotto a Roma … quella sull’urina. L’espressione voleva

dire che non bisognava preoccuparsi dell’origine del denaro.

Nell’anno 69, Tito Flavio Vespasiano (9-79) esce vincitore dalla grande

guerra civile, che ha lacerato per due anni l’Impero romano. Con lui e con i suoi

due figli, Tito e Domiziano, arriva al potere una famiglia italiana del centro Italia

di origini non nobili. Il nuovo imperatore, dotato di una notevole intelligenza e di

uno sviluppato senso degli affari, trova Roma in una situazione politica ed

economica catastrofica.

Le spese eccessive di Nerone, il cattivo stato delle finanze e le devastazioni

della guerra hanno portato l’Impero nella crisi. Vespasiano possiede, però,

l’energia sufficiente per imporre le riforme necessarie al recupero della

situazione. Il problema più grave che deve affrontare è di ordine finanziario. Sin

dagli inizi del suo regno egli annuncia che deve far entrare nelle casse dello

Stato 40 miliardi di sesterzi per poter assicurare la sopravvivenza dell’Impero. A

tal fine i Romani devono accettare una politica di estremo rigore di bilancio (Ogni

riferimento alla situazione odierna è puramente casuale !!!).

La sua esperienza nel campo della finanza si inscrive nella tradizione della sua

famiglia: uno dei suoi antenati ha fatto fortuna presiedendo delle vendite

all’asta. Tito Flavio Sabinus, suo padre, è diventato banchiere presso gli Elvezi,

dopo essere stato percettore delle imposte in Asia. Lo stesso Vespasiano

possiede una discreta esperienza nel campo della gestione finanziaria. Senza

parlare della sua leggendaria parsimonia o, forse della sua … avarizia. Egli

possiede il senso, molto provinciale, del valore del denaro e non dilapida i beni

dello Stato in spese sconsiderate, come l’anno fatto i suoi predecessori.

Ogni scusa risulta buona per ridurre le spese pubbliche e far affluire denaro

fresco nelle casse dell’Erario. Alcuni suoi procedimenti sono contestabili, ma

occorre sottolineare che egli non ha mai utilizzato il denaro raccolto per fini

personale. Egli non esita a vendere le magistrature ai candidati e persino

l’assoluzione agli accusati che gli … “lubrificano gli ingranaggi”; egli acquista delle

mercanzie ai grossisti che poi rivende a caro prezzo al dettaglio ed arriva a

sopprimere le esenzioni di imposta di cui beneficiavano alcune città; l’imperatore

fa, inoltre, accatastare le numerose regioni dell’Impero al fine di conoscere con

precisione le proprietà di ciascuno per poi assoggettarli ad imposta. Nelle

province vengono poi nominati a tale scopo dei nuovi procuratori e gerenti del

fisco. Vespasiano ha la reputazione di scegliere per queste cariche gli uomini più

rapaci e più intransigenti, salvo poi a condannarli, una volta che si sono arricchiti.

La maggior parte delle sue “espressioni famose” sono legate al denaro: i marinai

di Ostia, che vengono regolarmente a Roma per dare manforte ai pompieri della

capitale, reclamano presso l’imperatore la concessione di una indennità per “spese

per calzature”. Vespasiano ordinerà loro di effettuare il tragitto a “piedi nudi”.

Ma è l’imposta sull’urina che ha contribuito alla sua fama. A Roma ed in tutte le

altre città dell’Impero, una delle più importanti corporazioni artigianali è quella

dei follatori e tintori, che lavorano le fibre tessili.

L’elegante e delicato Tito rimane sorpreso

Risulta necessario eliminare l’unto o il grasso dalle stoffe di lana, bagnandole

nell’acqua calda mescolata con dei prodotti detergenti, quali la soda o l’urina. I

follatori hanno l’abitudine di piazzare davanti ai loro laboratori dei grandi tini,

nei quali gli uomini vanno ad alleggerirsi dei “liquidi in esubero”. Essi vengono così

a disporre di un detergente che non costa nulla. Per Vespasiano, questa è una

meravigliosa occasione per procurarsi del denaro. Egli inventa così, su due piedi,

una nuova imposta sulle urine raccolte dalla corporazione. Tito, il suo figlio

maggiore, un giovane elegante e delicato, si mostra colpito da questa nuova

misura. Egli rimprovera a suo padre di trarre profitto da materie nauseabonde.

L’imperatore, a quel punto, preleva una moneta dai tributi di questa imposta e la

passa sotto il naso del figlio domandandogli: “Per caso questo odore ti dà fastidio

?” “No”, risponde il giovane principe. “Eppure - replica Vespasiano – viene

dall’urina !”

E’ in questi termini che Gaio Svetonio Tranquillo (69 – dopo 122) ci riporta

l’aneddoto, che, poi, Lucio Dione Cassio (155-235) riassumerà in una formula

concisa da tutti ben conosciuta: “Pecunia non olet” (Il denaro non ha odore,

appunto !).

CULTO di SANTA CHIARA e di SAN FRANCESCO in SPAGNA (2^ parte)

CULTO di SANTA CHIARA e di SAN

FRANCESCO in SPAGNA (2^ parte)

Pubblicato sulla Notiziario informatico “Assisinews” del 12 dicembre 2020

Ad integrazione di quanto già comunicato nel precedente articolo sullo

stesso argomento, ho il piacere di partecipare in questa sede le ulteriori

scoperte effettuate in SPAGNA in un viaggio prima della attuale

pandemia.

Le informazioni riguardano essenzialmente due località:

la prima riguarda la città di XATIVA o JATIVA, all’interno della

provincia valenciana, una località di circa 30 mila abitanti, che è stata la

culla della famiglia BORGIA (BORJA), e di ben due papi, Callisto 3°

(Alfonso de Borja) ed Alessandro 6° (Rodrigo de Borja) e dove è nato

anche il pittore José Ribera (1590-1652), che ha operato anche in Italia,

dove era più conosciuto come lo Spagnoletto. La città é dominata da un

imponente e panoramico castello dei Borgia, posto sulla cresta del monte

Bernisa.

A XATIVA, di fatto, esiste una chiesa quattrocentesca di Santa Clara, a

navata unica in forme rinascimentali, oggi secolarizzata, rimasta intatta

nelle sue strutture e trasformata in sala di esposizioni temporanee. Al

suo interno, si possono ancora oggi ammirare, dietro l’altare maggiore, due

nicchie sovrapposte nel muro, una per il SS Sacramento e l’altra, più

grande, per una bella statua della Santa, con una pisside nella mano destra

(rappresentazione classica della Santa in Spagna) (foto 1-3).

La seconda località concerne la interessantissima città di MURCIA, di

400 mila abitanti, posta al centro di una fertilissima huerta (agricoltura

intensiva di agrumi ed ortaggi), irrigata da Rio Segura. Non lontano dal

centro della città (Calle Traperia e Piazza San Domingo), all’inizio del

Viale Alfonso 10°, meglio conosciuto localmente come tontòdromo

(passeggio elegante della città, dove la gente amava mettersi in mostra),

sorge l’interessantissimo complesso clariano del Convento di Santa Clara

la Real, costruito dai sovrani di Spagna sulle rovine di un palazzo (Alcazar

Seguir) del 13° secolo, di epoca mussulmana. La chiesa ed il convento delle

Clarisse sono ancora oggi attivi, mentre una parte del convento è stata

trasformata in museo, aperto al pubblico, dove sono stati riportati alla

luce i resti di un palazzo di epoca mussulmana e, nel chiostro conventuale,

è stato recuperato, l’alberca, un patio mussulmano, veramente di grande

suggestione (foto 4-5).

L’accesso al complesso religioso ed al suo cortile interno presenta lo

stemma reale spagnolo, sormontato da una statua di Santa Chiara

inginocchiata. La chiesa attuale, settecentesca, a navata unica, presenta

tre immagini dedicate alla Santa; una in un altare laterale, dove la Santa

risulta in adorazione del Bambinello, la seconda, sempre in un altare

laterale, mostra la Santa, bambina, guidata da Gesù sulla via della

purezza, mentre l’ultima, secondo lo schema classico della sua

rappresentazione, si trova nella parte superiore del baldacchino

dell’altare maggiore (foto 7-12).

Sempre nella città di MURCIA esiste un importante museo dedicato a

Francisco SALZILLO (1703-1783), uno fra i più grandi scultori spagnoli

dell’età barocca, che pochi sanno essere stato il figlio dello scultore

italiano Nicola SALZILLO (1672-1727), originario di Santa Maria Capua

Vetere, allievo dello scultore napoletano Aniello PERRONE che, a 27 anni,

nel 1699, si era trasferito a Murcia e dove aveva sposato la murciana

Isabella Alcaraz, madre di Francesco. Del Salzillo mi piace allegare una

famosa statua dedicata a San Francesco, oggi custodita nella città di

VALLADOLID (antica capitale della Spagna al tempo di Carlo 5°) (foto

13).

Da ultimo, mi piace segnalare un originalissimo crocefisso d’altare che ho

scoperto nella chiesa del Monastero di Sant’Anna, a CORDOVA, in

Andalusia (foto 14).

Per chiudere queste mie righe, desidero, infine, presentare, sempre

concernente l’iconografia di Santa Chiara, una suggestiva tavola dipinta

tedesca del 1360, conservata oggi Metropolitan Museum of Arts di New

York, nella quale la Santa, con una chioma fluente, riceve una palma dal

Vescovo di Assisi, assistito da San Francesco con le forbici nelle mani

(foto 15).

Dal VESCOVO di ROMA alla SANTA SEDE

Dal VESCOVO di ROMA alla SANTA SEDE

 

Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" (www.graffiti-online.

com), del mese di marzo 2020, con il titolo “LA CHIESA DALLE

PERSECUZIONI AL PAPATO”

http://www.graffiti-on-line.com/home/opera.asp?srvCodiceOpera=1924

 

I primi secoli del Papato, nei quali il potere dei vescovi di Roma consolida

una lenta maturazione, prima del Medioevo; dalle persecuzioni al

riconoscimento ufficiale, quindi all’ombra del potere imperiale.

l Papato costituisce una singolare istituzione: un potere sovrano eletto (non

ereditario come lo sono state molte monarchie fino all’epoca moderna), una

monarchia spirituale, che ha segnato, forse più delle altre, l’epoca

medievale, che è preesistita a tutte le monarchie moderne ed a tutti gli imperi

medievali e che ha finito per sopravvivere a tutte. Tuttavia, all’inizio, non si

trattava del “Papato” o della “Sede Apostolica”, così come lo intendiamo oggi

(quest’ultimo termine appare nelle fonti solamente nel 4° secolo) e per vederci

più chiaro occorre risalire agli ultimi secoli dell’Impero Romano.

Il prestigio di Pietro

La storia del vescovo di Roma è indissociabilmente legata a quello degli Apostoli

Pietro e Paolo ed ai primi tempi del Cristianesimo. Si sa che il Cristianesimo aveva

raggiunto la capitale sotto il regno dell’imperatore Claudio (intorno agli anni 40).

I due apostoli ebbero probabilmente una attività pastorale intensa durante gli

anni che essi hanno trascorso a Roma ed il loro ricordo rimane indelebile dopo il

loro martirio, occorso presumibilmente negli anni 60, dopo l’incendio di Roma

sotto il regno di Tiberio Claudio Nerone (-85 / -33) e che dà il via alle prime

persecuzioni contro i Cristiani. Essi sono stati considerati in seguito come le “due

colonne più importanti” della chiesa cristiana, aprendo la via agli altri martiri. In

tale contesto, il ricordo di Pietro, considerato nella chiesa come il primo degli

apostoli, quello al quale Gesù avrebbe affidato l’incarico di costruire la sua

Chiesa, rimane più vivido di quello di Paolo. Anche se i due uomini non hanno

fondato in senso stretto la Chiesa romana, la tradizione attribuisce a Pietro la

funzione di primo vescovo di Roma. Il nome dei suoi successori è conosciuto,

sebbene le liste dei papi siano state compilate “a posteriori” nel 4° secolo. Lino

(morto nell’anno 76), Anacleto o Cleto (morto nell’anno 92), Clemente (morto

nell’anno 100), Evaristo (morto nell’anno 108) e molti dei loro eredi sarebbero

morti come martiri della fede, anche se i fatti che li riguardano non sono stati

storicamente provati.

Occorre guardare, in ogni caso, allo spirito della chiesa di Roma che, sebbene

aureolata (nimbata) di un certo prestigio a partire dal 2° secolo, a questa epoca

risulta appena un vescovado fra tanti altri: in effetti, altri vescovati, come

Alessandria, Antiochia, Efeso o Corinto sarebbero stati fondati ben presto dagli

altri apostoli ed hanno conosciuto un notevole sviluppo. D’altronde, il “primato”

romano porrà ben presto seri problemi alle altre sedi episcopali, che vedono

spesso le sue pretese con una certa inquietudine. In questi primi tempi del

Cristianesimo, vengono a capo divergenze dottrinali e le comunità si disputano fra

di loro su uno sfondo di persecuzioni sempre più frequenti.

Un’autorità in gestazione

Mentre le dottrine tendono a divergere e le dispute di successione episcopali

mettono a mal partito l’unità del Cristianesimo nascente, i vescovi di Roma

rivendicano una autorità superiore agli altri (la pietra sulla quale Gesù Cristo ha

fondato la sua Chiesa) e propugnano l’unità della fede. Una disputa fra i vescovi

Stefano di Roma (254-257) e Tascio Cecilio Cipriano di Cartagine (210-258)

mette bene in risalto il malessere che pervade il 3° secolo fra le diverse

comunità cristiane. Nella disputa che li oppone sulla questione della

reintegrazione dei cristiani apostati (1) e sull’atteggiamento da tenere di fronte

alle persecuzioni, Cipriano è convinto che “ogni vescovo ha la libertà di

amministrazione della sua chiesa” e che “nessuno – tra i vescovi – può costituirsi

in vescovo dei vescovi”. A questa tesi risponde il vescovo Stefano ribadendo che

la tradizione romana deve applicarsi a tutti. La polemica trascina la Cristianità in

un vivo dibattito, che deve la sua archiviazione solamente al martirio dei due

vescovi coinvolti. Alla fine, sarà un arbitrato dell’imperatore Aureliano (214-

275), sotto il quale le libertà di culto vengono ridotte, che porterà un

riconoscimento esteriore al vescovo di Roma, considerato come primate della

Chiesa d’Italia.

L’impulso constantiniano

Tutto cambia dopo la vittoria al Ponte Milvio, nell’anno 312, di Flavio Valerio

Aurelio Constantino (274-337) o Constantino il Grande su Marco Aurelio

Valerio Massenzio (278-312), vittoria che l’imperatore attribuisce ad un

intervento del Dio dei cristiani in suo favore. Costantino fa promulgare, nel 313,

l’importante Editto di Tolleranza di Milano, che accorda la libertà di culto a

tutte le religioni e permette ai Cristiani di non continuare ad adorare

l’imperatore come un dio. Le chiese occidentali, quindi orientali, vengono

riconosciute e si vedono accordare diritti e doni importanti (pubblici e privati),

dei quali beneficia, in primo luogo, il vescovo di Roma. Parallelamente, per ragioni

politiche e strategiche, l’imperatore stabilisce a Treviri la sua capitale, che

“libera” Roma dall’influenza imperiale. I Cristiani possono ormai riunirsi in un solo

luogo per il loro culto, la basilica del Laterano, costruita sotto il regno di

Constantino. Vengono anche organizzate le necropoli alle porte della città e non

più nel sottosuolo e si moltiplicano i santuari dedicati ai martiri. Le prime feste

sante, probabilmente stabilite anteriormente, vengono ormai celebrate alla luce

del giorno.

La presa di posizione dell’imperatore negli affari della chiesa favorisce lo statuto

privilegiato del vescovo di Roma. Costantino, fautore dell’unità della Fede,

organizza e presiede dei concili per risolvere il problema delle “eresie” che

dilaniano l’Oriente, specialmente l’Arianesimo (2). I canoni conciliari di Arles nel

314 o di Nicea del 325 (durante il quale viene adottato il Credo, confessione di

fede che da allora tutti i Cristiani devono professare), confermano l’autorità di

Roma sugli altri vescovadi, specialmente in Gallia, che gli viene assoggettata di

fatto. L’imperatore invia a più riprese i vescovi Stefano e Marco di Calabria o

Marcus metropolitanus, per arbitrare dispute che concernono altre chiese, ad

esempio in Africa.

Questo ruolo di giudice tende ad imporsi nel corso delle discussioni che

oppongono i vescovi agli Ariani, che ritornano nelle grazie del potere imperiale

negli anni 335-337. La grave crisi che oppone il vescovo Atanasio di Alessandria

(295-373; che durerà più di 30 anni e porterà Atanasio a diversi periodi di esilio

ed anche alla persecuzione da parte dei suoi fautori), al quale si affianca il

vescovo romano Giulio (papa Giulio 1° morto nell’anno 352), agli Ariani divide

profondamente la Cristianità fra occidentali ed orientali, dando inizio ad una

irrimediabile frattura. Alcuni Concili successivi sconfessano, a loro volta, il Credo

di Nicea e portano le chiese orientali ed occidentali a scomunicarsi

reciprocamente nel 343, a Sardico. Questo evento non è altro che il precedente

di una lunga serie di malintesi che scava un solco profondo fra le due comunità,

opposte dal punto di vista dottrinale e politico. Esso conferma, in ogni caso, una

posizione di preminenza del vescovo romano.

Questa autorità viene, tuttavia, messa in discussione dai successori di

Constantino, in particolare da Constantino 2° (317-340; imperatore dal 337), da

Costante 1° (320-350; imperatore dal 337) e da Flavio Giulio Costanzo 2° (317-

361; imperatore dal 337) le cui mire cesaropapiste (3), a volte favorevoli

all’Arianesimo, obbligano i vari vescovi a sottomettersi. Un mezzo secolo di pace

non servirà a diminuire gli odi fra i Cristiani (avendoli persino rinfocolati) e

metterà in evidenza le difficoltà di trovare un accomodamento fra la Chiesa ed il

concetto stesso di Impero cristiano nascente. In tale contesto, si deve comunque

stabilire a chi spetta l’autorità suprema: al vescovo di Roma, la cui autorità è

ancora mal digerita dai suoi correligionari orientali, oppure all’imperatore, in un

contesto nel quale l’impero è nuovamente e durevolmente diviso ?

Il 4° e 5° secolo saranno in tale prospettiva l’occasione per il Papato per

accumulare tradizione ed esperienza di cui beneficeranno, 5 - 6 secoli più tardi, i

papi di fronte ai sovrani temporali.

Affermazione del Papato e formazione della Roma Cristiana

L’episcopato di Damaso 1° (366-384) segna un nuovo impulso nello sviluppo della

Sede Apostolica: il vescovo ottiene dall’imperatore Valentiniano (321-375;

imperatore dal 364) il monopolio sugli arbitrati religiosi e che tutti gli affari

religiosi che possano provocare un litigio siano sottomessi al vescovo di Roma. I

Concili di Roma (369) e di Antiochia (378) confermano la legittimità di un

vescovo, se questi viene riconosciuto come papa di Roma. L’ottima organizzazione

della pastorale, come la politica autonoma di costruzione di chiese nella Capitale

dell’Impero permettono alla chiesa di Roma di imporsi definitivamente come un

riferimento. Damaso istituisce la tradizione di una riunione conciliare annuale a

Roma, alla quale invita tutti i prelati italiani. Se taluni fra di loro, godono ancora

di una autorità incontestata (come Ambrogio da Milano), nessuno in Occidente

rimette più in causa l’autorità romana. I successori di Damaso 1°, Sirico (384-

399), Innocenzo 1° (401-417), come anche Sisto 3° (432-440), quindi Leone 1°

(440-461) completano questa impresa. Il Papato si dota di una cancelleria, di

legisti che compilano gli atti ed iniziano ad elaborare quello che costituirà la base

del diritto canonico (atti conciliari, tradizione, lettere, opere dei Padri della

Chiesa ed autorità …) e la più importante biblioteca d’Occidente.

In città, l’iconografia, nelle chiese, riflette questo trionfo ed illustra il Credo. I

credenti possono ammirare il Cristo circondato da Pietro (raffigurato più di tutti

gli altri) e Paolo e spesso da altri apostoli. La chiesa romana risulta in una

posizione di forza, evangelizzatrice, che invia dei missionari in terra pagana, in

Gallia e persino nelle isole britanniche e che lotta contro le nuove eresie: il

pelagianesimo (4), il priscillanesimo (5), il monofisismo (6) o il manicheismo (7).

Mentre l’Africa risulta ripiegata su se stessa, in Oriente si impone

progressivamente, all’ombra degli imperatori, la sede di Costantinopoli, di fronte

alle divisioni regionali.

Lo sforzo di Roma per pesare nella politica occidentale è tanto più rilevante, dal

momento che il contesto, a partire dagli inizi del 5° secolo, è molto difficile. Le

prime ondate di “invasioni” (i Visigoti, alleati massicciamente alle tesi ariane, si

stabiliscono in Aquitania, i Franchi e gli Alamanni pagani si agitano sulle frontiere

nord est ed i Vandali conquistano Cartagine nel 439) determinano lo

spezzettamento dell’Impero. La sicurezza di Roma diventa una sfida

fondamentale, soprattutto dopo il sacco di Roma, perpetrato da Alarico (370-

410) nel 410. Nel 452, papa Leone 1° riesce a negoziare la ritirata di Attila e ad

evitare nuovi saccheggi. Egli però fallirà nella stessa impresa davanti a Genserico

(390-477), che metterà Roma a sacco per due settimane, nel 455. Per diritto

(che si elabora a questa epoca) e di fatto, il vescovo di Roma è diventato il capo

della Chiesa ed anche il suo difensore. Il trionfo dottrinale e politico di Leone 1°

in occasione del Concilio di Calcedonia (451) è stato totale. Durante il suo

svolgimento l’assemblea avrebbe gridato “E’ Pietro che parla per bocca di Leone”.

Nei fatti, il Concilio di Calcedonia, segna in qualche modo la rottura con la Chiesa

d’Oriente, ma soprattutto con il Patriarcato di Costantinopoli, tenuto conto che

con l’espansione dei Mussulmani gli altri Patriarcati d’Oriente (Antiochia,

Gerusalemme ed Alessandria d’Egitto) perderanno rapidamente la loro funzione

politico religiosa.

La caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 non determina alcuna

modifica per il Papato. Al contrario, i nuovi sovrani germanici vedono

nell’amministrazione romana, episcopale o laica, un formidabile strumento per

consolidare il loro potere nella continuità della storia. Il papa (termine che

comincia a comparire negli atti ufficiali solo a partire dal 6° secolo) deve

occuparsi soprattutto di divergenze dottrinali che l’oppongono al patriarca di

Costantinopoli ed, in tale contesto, papa Felice 3° della gens Anicia (morto

nell’anno 492) ed il patriarca Acacio (morto nell’anno 479) si scomunicano di

nuovo reciprocamente, aprendo uno scisma di 35 anni (484-519). Mentre in

Oriente l’imperatore si immischia apertamente negli affari della Chiesa, il papa

Felice 3°, quindi il papa Gelasio 1° (morto nell’anno 496) si prendono cura di

iniziare una riflessione sulla separazione della chiesa e del potere reale, anche

quando questo è cristiano. Il nipote di Felice 3°, Gregorio 1° (detto Magno, 590-

604) simbolizza questa autonomia guadagnata dal potere papale sui principi laici.

Unico sovrano residente a Roma, dopo che la capitale politica è stata spostata a

Ravenna, il papa ne è il difensore e Gregorio esercita un regno energico,

economico (finanzia la difesa di Roma e l’approvvigionamento di grano) e

diplomatico. In definitiva, per il periodo successivo, il papa rimane a Roma a

lottare contro le invasioni longobarde, le velleità di riconquista bizantina (che

riconquistano l’Italia e Roma dal regno di Giustiniano; 482-565) e le ricorrenti

epidemie di peste.

La fine del 6° secolo segna un momento di transizione per il Papato. Esso, dopo

aver acquisito in Occidente una indipendenza ed un prestigio manifesti, per le sue

lotte contro le eresie e per la stabilità dell’Italia, ora deve far fronte a nuove

sfide. Quello dell’evangelizzazione dell’ovest dell’Europa, che passa attraverso lo

sviluppo del monachesimo e di una nuova riflessione sulla fede, sulla pratica

liturgica ed il ruolo dei preti. Ma anche su quello dell’atteggiamento da assumere

di fronte alle pretese dei re, che vogliono nominare i vescovi nei loro regni ed

affrancarsi dall’autorità di Roma, spesso lontana e non in sintonia con le loro

preoccupazioni culturali. La Chiesa universale, sotto l’autorità del papa, vuole,

invece, imporsi su quella secolare. Tuttavia i secoli seguenti saranno marcati da

numerosi e corti regni e la presenza del potere bizantino in Italia renderà molto

difficile l’esercizio del potere papale romano.

NOTA

(1) Cristiani che hanno pubblicamente rinunciato alla loro religione;

(2) Dottrina predicata dal prete Ario, secondo la quale il Cristo è una creatura

subordinata al Padre. Il Credo del Concilio di Nicea, del 325, condanna tale

dottrina;

(3) Cesaropapismo: sistema politico nel quale l’imperatore pretende di esercitare

un potere assoluto nel dominio spirituale e temporale;

(4) Dottrina propugnata dal monaco inglese Pelagio, che contesta il peccato

originale. Per Pelagio il peccato originale fu dei soli progenitori, non dei

discendenti, ma non macchiò la natura umana, ma che ne subì certamente solo le

conseguenze. Dottrina che insiste anche sul libero arbitrio dell’uomo nella sua

liberazione dal peccato. Condannata dal concilio di Efeso;

(5) Dottrina rigorista di tipo agnostico-manicheo, antitrinitaria, che fa capo al

vescovo spagnolo Priscilliano di Avila. Dottrina che dà spazio al determinismo

astrologico ed all’insegnamento delle donne. che negava la resurrezione della

carne, attribuiva la creazione dei corpi al demonio e predicava la separazione

netta tra bene e male e la necessità di praticare l'ascesi. Condannata dal Concilio

di Toledo del 400 e da quello di Braga del 563;

(6) monofisismo (dal greco monos, «unico», e physis, «natura») è il termine usato

nella teologia cattolica e nella storiografia occidentale per indicare la forma di

cristologia, elaborata nel V secolo dall'archimandrita greco Eutiche, secondo la

quale la natura umana di Gesù era assorbita da quella divina e dunque in lui era

presente solo la natura divina. Dottrina condannata nel Concilio di Calcedonia del

451;

(7) Religione fondata in Persia da Mani nel 3° sec. d.C. Il manicheismo concepiva

tutto l'esistente come espressione di una lotta perenne tra due principi opposti

(dualismo manicheo): il bene, la luce, lo spirito, Dio, in contrasto con il male, le

tenebre, la materia, lo spirito demoniaco, Satana. In sostanza una Dottrina che

ha come principio fondamentale la divisione del mondo in due entità, la Luce (il

Bene) e le Tenebre (il Male) che sussistono nell’uomo in maniera intrinseca.

Giunta nell’impero romano nel 4° secolo, tale dottrina seduce la gente per

determinati suoi riti e simboli, vicini al Cristianesimo.

CORRIDOIO DEL VASARI

CORRIDOIO DEL VASARI

Pubblicato su Rivista Informatica "GRAFFITI on line" (www.graffitionline.

com), del mese di gennaio 2020

http://www.graffiti-on-line.com/home/opera.asp?srvCodiceOpera=1918

Uno spazio segreto ricavato nella Firenze del 1500, che consentiva ai

Medici, Signori della Toscana, di raggiungere indisturbati gli Uffizi da

Palazzo Pitti. Una curiosità aperta al pubblico che svela Firenze in tutta la

sua ricchezza e bellezza

Questa avventura ha inizio con un acquisto, quello effettuato dalla

moglie di Cosimo 1° de’ Medici (1519-1574), Eleonora di Toledo

(1522-1562), del palazzo Pitti, futura residenza della famiglia nel

1561. Il sovrano, per recarsi a Palazzo Vecchio, sede ufficiale del suo

potere (Uffizi), è costretto ad attraversare buona parte della città, passando

per stradine strette, dove teme la possibilità di attentati. L'idea del percorso

sopraelevato nasce, dunque, per dare opportunità ai granduchi di muoversi

liberamente e senza pericoli dalla loro residenza di Palazzo Pitti al Palazzo del

Governo, visto l'appoggio ancora incerto della popolazione verso il nuovo Signore

e il nuovo sistema di governo che aveva abolito l'antica Repubblica fiorentina,

sebbene gli organi repubblicani fossero ormai solo simbolici da quasi un secolo.

Nel 1565, pertanto, egli commissiona all’architetto Giorgio Vasari (1611-1574),

che aveva realizzato anche gli Uffizi, la costruzione di un passaggio chiuso e

sospeso fra i due palazzi per potersi muovere in tutta sicurezza, senza scorta

armata. I lavori vengono realizzati con la massima celerità, venendo conclusi nel

giro di appena 5 mesi e la nuova opera viene inaugurata in occasione del

matrimonio del figlio di Cosimo, Francesco de’ Medici (1541-1587), con Giovanna

d’Austria (1547-1578).

Ogni Medici, fino all’estinzione della dinastia, nel 1737, ha così percorso questo

spazio, utilizzato in occasione di visite ufficiali, per meravigliare gli ospiti di

passaggio. Gli Asburgo Lorena (Lotringen), granduchi di Toscana hanno, in

seguito, raccolto il testimone dai Medici fino al 1799. Nel 19° secolo, il corridoio

è stato ceduto dal re Vittorio Emanuele 2°di Savoia (1820-1878) alla città di

Firenze, ma il complesso ritroverà una parte del suo lustro solo nel maggio 1938,

in occasione del viaggio di Adolf Hitler (1889-1945), nell’Italia fascista di Benito

Mussolini (1883-1945). Il Duce riceve con fasto il suo omologo a Firenze e gli fa

percorrere il corridoio. Per impressionarlo maggiormente, il Duce farà

effettuare alcuni lavori sulla parte che sovrasta il centro del Ponte Vecchio, dove

vengono aperte tre finestre panoramiche nel bel mezzo dell’Arno, in direzione del

Ponte Santa Trinita, offrendo, in tal modo, un panorama eccezionale sul fiume e

sulla città. Una situazione ben diversa dai piccoli e discreti oblò rinascimentali

del progetto iniziale del Vasari,

Nel periodo seguente, il corridoio cade lentamente nell’oblio. Nuovi lavori vengono

intrapresi negli anni 1960 per restaurarlo, ma la grande inondazione del 1966

porta un colpo fatale all’operazione in atto: altre priorità si impongono ed i lavori

vengono abbandonati. Nel frattempo, i lavori riprendono e si prolungano

stancamente per molti anni, sfociando agli inizi del 1993 nella previsione di una

riapertura al pubblico per l’estate seguente. Ma, il 27 maggio, l’esplosione di un

automezzo in via dei Georgofili, imbottito con 250 chilogrammi di esplosivo,

provoca 5 vittime, fra le quali una bambina di 8 anni, un neonato di 9 mesi e 50

feriti. Una parte del Palazzo degli Uffizi ed il corridoio che lo sovrasta vengono

danneggiati. Circa 200 opere vengono danneggiate (alcune irrimediabilmente

perdute) ed il corridoio minaccia di crollare per una lunghezza di un centinaio di

metri. Gli inquirenti scoprono rapidamente che l’attentato è stato ordinato da

una famiglia della Mafia siciliana, come risposta all’arresto nel gennaio

precedente di uno dei suoi capi, Salvatore “Toto” Riina. L’obiettivo è quello di

seminare il terrore e di colpire quello che costituisce un’importante fonte di

entrate per l’Italia: il turismo culturale.

Questa tragedia interrompe per diversi anni qualsiasi progetto legato al

Corridoio, in quanto i lavori assumono un ampiezza considerevole: non occorre

solamente rinnovare, restaurare, ma anche ricostruire una parte

dell’infrastruttura. La rimessa in opera impegna lo spazio di qualche anno, ma

sarà solo nel corso dell’anno 2000 che viene riaperto al pubblico con un percorso

di circa 1 chilometro. Apertura condizionata, poiché il corridoio non costituisce,

in effetti, un museo ordinario e la sua visita viene effettuata con una guida, su

prenotazione, in gruppi ed in determinati giorni della settimana. In definitiva, una

situazione speciale per pochi visitatori che possono giustamente avere la

sensazione di sentirsi dei “privilegiati”.

L’entrata del corridoio, in effetti, non è indicata nel Museo degli Uffizi e vi si

accede da un portone della galleria del 2° piano del Museo. Superato il portone,

una lunga scalinata di marmo di 60 gradini scende quasi al livello del 1° piano del

Museo e dà inizio alla visita vera e propria della struttura. Il percorso prosegue

poi a sinistra, in direzione dell’Arno, con un altro scalone. Le finestre e gli occhi

che si aprono nel corridoio consentono suggestive vedute sulla città, sull’Arno e

sul Ponte Vecchio. La prima parte del percorso consente di ammirare, sotto lo

sguardo attento di un guardiano, la collezione riunita da Leopoldo de’ Medici:

centinaia di quadri, sculture e disegni. Le pareti del corridoio sono piene di

numerose opere del Seicento e Settecento con i caravaggeschi: Gherardo delle

Notti (Gerard van Honthorst) (Cena con suonatore di liuto, Brindisi in Olimpo),

Rutilio Manetti e Francesco Rustici detto il Rustichino (Pittura ed

architettura), nonché opere di Artemisia Gentileschi (Giuditta ed Oloferne) e

Guido Reni. Fra i pittori del Seicento italiano vanno ricordati Annibale Carracci,

il Domenichino (ritratto del cardinale Agucchia), il Guercino (Endimione

addormentato, Sibilla Samia), Salvator Rosa, Battistello Caracciolo,

Michelangelo Cerquozzi, Giuseppe Recco (Natura morta), di Giovan Battista

Tiepolo (I putti in volo), di Giovan Battista Crespi (Sacra Conversazione) e

Giuseppe Maria Crespi (Fiera di Poggio a Caiano), di Rosalba Carriera, di Pompeo

Batoni. Inoltre una parte del corridoio che porta al Ponte Vecchio presenta opere

del seicento italiano suddivise per città fra le quali la Villa Medici a Roma del

Vanvitelli (Gaspard van Wittel).

Dopo aver superato con un grosso arco il Lungarno sottostante, il percorso

seguente prosegue con una galleria soprelevata ad arcate, che raggiunge il Ponte

Vecchio. Con una deviazione di 90 gradi, il percorso entra nel Ponte Vecchio, o

meglio, al di sopra delle sue case e dalle sue finestre si possono osservare i

turisti che percorrono il ponte e sciamano nei suoi negozi di oreficeria. Agli inizi,

il posto di questi negozi era occupato dal mercato delle carni, che si svolgeva

proprio su Ponte Vecchio piuttosto ed i Medici, disturbati dagli odori forti che

provenivano dalle case sottostanti, decidono con Cosimo 1° di chiuderle,

facendole rimpiazzare appunto con delle oreficerie, che ancora oggi occupano il

ponte.

Di fatto, agli inizi del percorso sul Ponte Vecchio, i muri del corridoio continuano

sempre ad essere ricoperti da quadri ma di diverso stile. Da questo momento, ha

inizio la parte più importante e più famosa del Corridoio del Vasari, con la

eccezionale e più antica collezione al mondo di autoritratti degli artisti di ogni

epoca italiani e stranieri, pazientemente riuniti, dal 17° secolo, per iniziativa di

Leopoldo de Medici (1617-1675). Tra gli italiani vanno ricordati Agnolo di

Taddeo, Taddeo di Gaddo e Gaddo Gaddi o Gaddo di Zenobi, il Romanino,

Andrea del Sarto, Agnolo Bronzino, Tiziano Vecellio, Jacopo da Bassano, Palma

il Giovane, il Veronese, Giorgio Vasari, Leonardo da Vinci, Gian Lorenzo Bernini,

Antonio Canova. Fra gli stranieri possiamo ricordare il Durer, Rembrandt, Pieter

Paul Rubens, Charles Le Brun, Diego Velasquez, Delacroix, Dominique Ingres,

Jean Louis David, Arnold Böcklin, Kaufmann, Marc Chagall. Fra le artiste vale la

pena ricordare Elisabetta Vigée Le Brun (1755-1842) (la pittrice favorita di

Maria Antonietta d’Austria), che è vissuta a Firenze dopo essere sfuggita alla

Rivoluzione

Fra le curiosità di questo passaggio sopraelevato, il percorso, all'estremità sud

del Ponte Vecchio, opera una svolta a destra, a 90° e si restringe, per aggirare e

contornare la torre dei Mannelli. Scelta obbligata per il Vasari, a seguito della

strenua opposizione della famiglia proprietaria di questo edificio medievale, che

non ha acconsentito a vendere le sue case ed abbattere la torre, per far posto al

corridoio.

Superato l'Arno, il Corridoio, continuando con la galleria degli autoritratti, passa

sopra il loggiato della facciata della chiesa di Santa Felicita, dove una grossa

apertura dà accesso ad un balcone, protetto dagli sguardi da una pesante

cancellata. Il balcone si affaccia direttamente sulla navata della chiesa, per far

sì che i componenti della famiglia granducale potessero assistere alla messa

senza scendere tra il popolo e senza essere disturbati dagli sguardi dei fedeli.

Al termine della galleria, colpiti da tante meraviglie di opere d’arte, si giunge

lentamente verso il termine della struttura. Terminato il corridoio degli

autoritratti, con quello del pittore Annigoni, il percorso svolta a sinistra a 90° in

direzione di Palazzo Pitti e nell’ultimo tratto risulta esposta la collezione dei

personaggi illustri di tutte le epoche, che, al momento, risulta rimossa per

restauri.

Ancora un ultima serie di gradini e, superata un ultima porta, si esce o subito

all’aria aperta attraverso uno stretto passaggio Giardino di Boboli, presso la

Grotta del Buontalenti o ancora, dopo un lungo corridoio ed un’altra scala, sin

dentro lo stesso palazzo, dopo aver percorso quello che la Città del Giglio offre

di più prezioso fra i suoi tesori nascosti.

Tutto il percorso risulta disseminato di oblo con griglie di ferro che, secondo la

guida, servivano anche per spiare i Fiorentini e per ascoltare le loro

conversazioni, al fine di controllare il “polso” della città. Dominique Fernandez

(1929 - ) nel suo Dizionario degli innamorati d’Italia, si attarda alquanto su

questo aspetto del corridoio: “Dall’alto di questo cammino di ronda metaforico,

Cosimo 1° poteva sorvegliare i movimenti del popolo, prevenire i complotti,

infierire sui ribelli e, anche se assente, far credere di essere là, invisibile, in

guardia, pronto a punire”.

Copyright © 2013. www.iacopi.org  Rights Reserved.